La tavola era apparecchiata, il pranzo pronto. Mancava soltanto il pane. «Quello lo comprava sempre Mario che arrivava a mezzogiorno per mangiare insieme». Quel 27 ottobre del 1995 però, Mario Sarritzu, 48 anni, imprenditore quartese, a casa non è tornato. E' stato ritrovato 13 giorni dopo, cadavere, dentro una busta di plastica in una discarica abusiva a Macchiareddu. Ci sono stati tanti processi, sempre finiti con un nulla di fatto. Delitto irrisolto.

Un dolore infinito

Un quarto di secolo dopo la moglie Silvana Perra, 71 anni, non si dà pace. «Non è stata fatta giustizia, non si sono impegnati per niente per scoprire la verità. Le sentenze sono state una delusione totale. Era meglio non sentire quello che hanno detto i giudici. È questa la rabbia che mi resta dentro. Io ero sempre in tribunale per sapere la verità e guardare in faccia responsabili. Ma le sentenze hanno detto una cosa diversa».

Dalla sua casa nel quartiere di Is Arenas, la donna ricorda quei giorni che le hanno sconvolto la vita. «Lo aspettavo per pranzo e non tornava. Si fanno le 13, le 14 e ho iniziato a chiamarlo, a chiamare i suoi colleghi, i suoi amici. Nessuno sapeva dove fosse». La mattina era uscito come sempre dopo il caffè. «Era sereno, niente che facesse pensare a cose brutte». Poi il buio. «Non sapevo cosa pensare. In testa mi è passato di tutto: un incidente, qualche gesto estremo. Abbiamo fatto la denuncia e sono iniziate le ricerche». Lo cercano tutti, Mario: le forze di polizia, i familiari, gli amici e un elicottero che sorvola Villasimius dove si diceva potesse essere andato per provare un gommone. Ma l'imprenditore è sparito nel nulla.

Il ritrovamento

Lo trova l'8 novembre un uomo che cerca ferro vecchio a Macchiareddu. All'improvviso vede un pezzo di corda nuova, la tira. C'è una busta, sotto un cumulo di macerie. Dentro il corpo dello scomparso. «Alle 3 del mattino suonano al citofono - racconta oggi Silvana - era la polizia. Ricordo che mi dissero che l'avevano trovato, io chiesi se stava bene e mi risposero "no signora, suo marito è morto ammazzato". In quel momento il mondo mi è crollato addosso. Per giorni ho vissuto come sospesa in uno spazio che non sentivo più reale». Silvana resta a letto per 15 giorni, sedata e disperata. Poi si rialza. Combatte con tutte le sue forze per suo marito. Per quell'uomo «bello e gentile» che aveva conosciuto quando aveva 16 anni in piazza Santa Maria. Nove anni dopo si sposano nella basilica di Bonaria a Cagliari «perché era sempre stato il mio sogno», con l'abito bianco e lo strascico e uno stuolo di parenti. Poi Mario apre la sua attività: imprenditore edile nel campo del calcestruzzo e la vita va avanti felice. «Ci sono stati processi e sentenze e io ero sempre presente. Non volevo credere alle parole dei giudici quando hanno detto che erano tutti assolti. Nella sentenza di appello non c'è niente, non hanno fatto indagini sulla fune, sugli indumenti spariti. Mio marito è morto soffocato e ancora non so perché».

La giustizia negata

In questa grande ed elegante villetta su tre piani, con i divani rossi e le foto di Mario sparse dappertutto, la vedova parla con tanta rabbia dentro. L'aveva costruita Mario, la casa. La camera da letto con il bagno enorme e la vasca idromassaggio, il mobile bar e la taverna dove invitare gli amici. È riuscito a godersela soltanto dieci mesi. «Se almeno fosse stata fatta giustizia riuscirei ad andare avanti. Il fatto che non ci siano colpevoli non mi dà pace. Non hanno trovato nemmeno un movente». Silvana non si è mai rassegnata. Ha chiesto giustizia, ha cercato anche lei i responsabili. Ai quali, oggi, 25 anni dopo, vuole mandare un messaggio: «Mario era la mia vita, il mio tutto. Ci capivamo solo con lo sguardo. La notte non dormo, ma credo che anche gli assassini non passeranno notti tranquille, pensando a quello che hanno fatto».

Giorgia Daga

© Riproduzione riservata