«A voi infami». Inizia così l’ultimo post della mamma di Marco Mameli, ucciso due mesi e mezzo fa a Bari Sardo. «Che pur conoscendola avete scelto di coprire la verità fingendo di non sapere nulla dico che voi state rendendo ancora più vigliacchi, vili, miserabili e codardi. State continuando ad affondare la lama nel corpo di mio figlio. Ma ricordate bene che il silenzio non cancella la colpa e non potrà nascondere a lungo la verità».

Il dolore si è trasformato in rabbia. Le parole in pietre. Dopo 75 giorni di attesa, di appelli, di inviti, di dolcezza, ricordi. Trascorsa la Pasqua e la festa della mamma, il vaso è colmo al punto di traboccare.

Cosa ha di diverso l’omicidio di Marco Mameli?

In primis il fatto che di certo qualcuno ha assistito al delitto, avvenuto durante una festa di Carnevale a cui erano presenti migliaia di persone. È stato preceduto da una discussione in un locale di fronte a decine di avventori. E poi. Durante la rissa fatale un compaesano di Marco è stato ferito e un ragazzo si è subito assunto la responsabilità di questo episodio presentandosi in commissariato accompagnato dal suo avvocato. Persone, occhi, mani, testimoni, impressioni, pettegolezzi. In teoria una mole di materiale tale da far pensare a una rapida conclusione delle indagini. Nulla di più sbagliato. Come se Marco fosse stato ucciso in un’altra dimensione spazio temporale, in cui nessuno sia stato in grado di vedere nulla. La dimensione omertà, fatta di buio e paura. Pressioni, minacce, cattivi pensieri. L’attesa per una svolta nelle indagini, spasmodica nei primi giorni dopo il delitto, piano piano si è dilatata coprendosi di un velo di rancore. Come da copione le indagini non si sono mai fermate, sono stati ascoltati decine di ragazzi, eseguite perquisizioni, sequestrati i telefoni, acquisite le immagini.

Il delitto è datato 1 marzo. I primi giorni sono decisivi, l’attività degli inquirenti è stata frenetica. Alcuni giorni dopo il delitto è stata ritrovata l’arma utilizzata, un coltello ritenuto compatibile con le ferite sul corpo del povero Marco, colpito tre volte e ucciso da un fendente al cuore. Secondo le risultanze dell’autopsia senza avere avuto la possibilità di difendersi, come se qualcuno lo tenesse fermo. Assoluto il riserbo della Procura sugli accertamenti effettuati, l’esito delle analisi e degli altri esami.

In analoghi casi raccontati dalle cronache, anche avvenuti di recente, come nella strage di Monreale, il contributo delle presenti che hanno assistito alla scena è stato determinante. Nel caso della morte di Marco questo non accade e svanita l’onda emotiva il meccanismo è destinato a incepparsi. Per questo motivo i familiari di Marco mai hanno smesso di chiedere giustizia.

“Giustizia per Marco". All’ingresso di Ilbono tre parole pesanti come sassi accolgono chi arriva in paese. Tra due mesi e mezzo familiari, amici e perfetti sconosciuti si chiedono perché. Il killer non ha colpito nascosto nella notte, protetto da un muretto a secco. Chi ha ucciso Marco Mameli si nasconde dietro la paura di chi non vuol parlare. C’erano tanti occhi, tante mani, tanti pensieri quella sera a Bari Sardo.

Domani (16 maggio) a Pattada, paese d’origine della fidanzata del giovane ucciso, Cristina Amadori, si terrà una fiaccolata organizzata dalla parrocchia di Santa Sabina e dal Comune. Con partenza dalla chiesa del Carmelo, i promotori dell’iniziativa vogliono ricordare Marco ed esprimere il dissenso verso qualsiasi forma di violenza. Sarà il vescovo di Ozieri, Corrado Melis, a celebrare la messa delle 19. Quella di Pattada è la quarta fiaccolata, dopo Ilbono, Loceri e Bari Sardo, in memoria del giovane operaio, ucciso con tre coltellate la sera del primo marzo. A margine del corteo di Bari Sardo la mamma di Marco, Simona, aveva detto: “Come famiglia di Marco ci siamo sentiti avvolti in un sincero e sentito abbraccio”.

In Ogliastra non si era mai vista una mobilitazione, fisica ed emotiva, di tale portata, in relazione a un delitto. Il motivo è semplice: serve un colpevole. Non per farsene una ragione ma per chiudere la pagina e non dover vivere con la coperta dell’ingiustizia sulle spalle.

© Riproduzione riservata