A Saccargia corre la protesta, in viale Trento si innesta la retromarcia, alle pendici di Monte Arcosu, invece, scatta la corsa contro il tempo. La storia dell’Isola del vento e del sole viaggia su tempi e direzioni opposte. La marcia dei comitati va in rotta di collisione con i tempi infiniti delle istituzioni, arenate sulle sabbie mobili di norme sempre attendiste e transitorie.

Corrono solo gli affari

In quest’Isola sotto perenne attacco della speculazione energetica corrono solo gli affari, da nord a sud della terra dei Nuraghi, come se lobby e faccendieri avessero fretta di “riscattare” quanto prima il malloppo di incentivi e guadagni milionari conquistati con autorizzazioni dell’ultim’ora. Inutile nascondere la realtà dei fatti: da quando le istituzioni si agitano senza concludere niente si è scatenata la corsa a portare a casa il prima possibile le slot machine delle rinnovabili. I signori del vento e del sole da una parte tentano di sfruttare al meglio l’attendismo del Palazzo, si illudono che quel perdere tempo alla fine gli consentirà di incassare tutto il malloppo, dall’altra, però, temono che la forza della mobilitazione gli possa far perdere tutto a suon di divieti e vincoli veri.

“Colpaccio”

Il “colpaccio” rinnovabile in terra di Sardegna si sta consumando senza ostacoli, visto che nessun provvedimento concreto è stato sinora adottato. Lo stesso vincolo scattato a livello nazionale per il fotovoltaico da queste parti è carta straccia. Se fosse efficace anche per la Regione sarda, che, però, sull’urbanistica ha competenza primaria, nell’Isola non si bloccherebbe niente, visto che quella norma fa salvi tutti i progetti già presentati, rendendo la Sardegna una vera e propria “zona franca” per lo sfregio del silicio. Quel tergiversare dei Palazzi del potere sembra aver scatenato un’operazione senza precedenti con risvolti che assumono rilievi di livello internazionale considerato che ogni angolo dell’Isola è letteralmente preso d’assalto da un carico di pannelli fotovoltaici senza precedenti.

Tir in fila

Per rendersene conto non servono testimonianze, basta addentrarsi nel reticolato stradale alle pendici dell’Oasi del Cervo, sul Monte Arcosu, tra le saline di Santa Gilla e le campagne di Uta. La fila degli autoarticolati carichi di silicio giunti dal lontano Oriente è dislocata nelle periferie estreme della zona industriale di Macchiareddu, a ridosso del birrificio più famoso. Stazionano lì per ore, come se fossero in attesa di un imbarco. In realtà sono appena arrivati dalla Cina di Xi Jinping al Porto Canale di Cagliari. Otto chilometri e sono già a destinazione. Se si traguarda l’orizzonte delle pale eoliche è un attimo scorgere la nuova muraglia cinese in terra sarda.

Made in China

Centinaia e centinaia di pallet di pannelli fotovoltaici, racchiusi in cartone marchiato «Made in China», una catasta infinita, tutti allineati e sovrapposti per centinaia di metri, come se dovessero sovrastare tutta la foce del Cixerri e del Fluminimannu. Si può anche pensare che abbiano deciso di stoccarli in Sardegna in attesa di approdi migliori, ma la frenesia che circonda l’area non lascia immaginare una sosta occasionale. In realtà, interpretando il momento storico, americani, multinazionali italiane e straniere in genere, hanno deciso che non si deve perdere tempo: bisogna tappezzare di pannelli cinesi ogni spazio rimasto vuoto, facendo delle aree una volta agricole di Uta e Assemini il più grande concentrato di pannelli fotovoltaici del Mediterraneo.

Congiuntura nefasta

Quella che si sta consumando in Sardegna è una congiuntura internazionale devastante: da una parte la Cina ha raggiunto un surplus produttivo di pannelli fotovoltaici senza precedenti, impossibile da smaltire anche per la Repubblica Popolare Cinese, dall’altra l’Europa, e l’Italia in particolar modo, hanno deciso di lasciare campo libero all’invasione di quei pannelli banditi dagli Stati Uniti, venduti in Sardegna a prezzi stracciati, con ulteriori guadagni stratosferici per gli speculatori di turno. Si spiega solo così che tra il mega carcere di Uta e la periferia di Capoterra sia iniziata una demolizione senza sosta di tutti gli impianti fotovoltaici originari per lasciar spazio ai nuovi pannelli low cost “Made in China”, teoricamente più “performanti” e in grado, quindi, di far girare come una trottola il contatore degli incentivi e dell’energia.

Pannelli della schiavitù

Peccato che quei pannelli, però, arrivino direttamente dalla terra dello sfruttamento umano, oggetto di un’inchiesta senza precedenti a livello internazionale. Basta leggere quei marchi indelebili, quelle provenienze tracciate in geroglifici e tradotti nella lingua internazionale, per capire che si tratta proprio delle major cinesi finite sotto accusa per i maltrattamenti degli operai segregati nelle catene di montaggio nelle periferie più lontane della grande Cina. Sotto accusa ci sono proprio le fabbriche cinesi che stanno vendendo a mani basse i loro pannelli agli speculatori in terra sarda.

Sotto inchiesta

I marchi del ciclopico sbarco sardo sono tutti finiti in pesantissime inchieste a partire dal dipartimento della Giustizia americano che ha messo in luce il lato oscuro del boom dei pannelli solari «Made in China»: lo sfruttamento dei lavoratori cinesi ridotti in schiavitù. Tutto messo nero su bianco dalle agenzie internazionali: vi è uno stretto collegamento tra la catena di montaggio dell’industria solare cinese e la più crudele persecuzione della minoranza etnica uigura nello Xinjiang. Un luogo marchiato in tutti i prodotti sbarcati in Occidente, visto che la metà del polisilicio mondiale viene infatti prodotto proprio in quei luoghi vergati a fuoco dall’infamia dei maltrattamenti.

Smentite e conferme

Il Governo cinese, smentisce tutto: conferma solo che 2,6 milioni di cittadini di etnie minori (uiguri e kazaki) sono stati “collocati” nelle fattorie e nelle fabbriche nello Xinjiang in base ai programmi di Stato relativi al cosiddetto “surplus di manodopera” e al “trasferimento di manodopera”. L’ultima agenzia internazionale ad essersi occupata del caso, nello scorso aprile, sostiene che il 45% della fornitura mondiale di un componente chiave nella produzione di pannelli, appunto il polisilicio, verrebbe prodotto proprio nella regione cinese dello Xinjiang. Il regime di Xi Jinping parla apertamente di trasferimenti volontari di questi lavoratori, ma i report riservati parlano di un gigantesco trasferimento coatto di manodopera in un clima di pesantissima coercizione aggravato dalla nefasta minaccia di rieducazione e internamento.

Report Usa

Gli americani parlano di una vera e propria “riduzione in schiavitù” di interi gruppi etnici della popolazione cinese, tutto con il timbro della legalità di stampo cinese. Gli Usa hanno avviato l’Uyghur Forced Labor Prevention Act, per prevenire lo sfruttamento di queste popolazioni e nel contempo hanno schierato dazi alle stelle per tentare di proteggere l’industria americana dal dumping, esportazione di merci a bassissimi costi e da pratiche non competitive. L’Europa, invece, sta a guardare. Non è un caso che tra le migliaia di pallet scaricati in terra sarda si possa leggere ogni tanto il marchio cinese accompagnato da una residenza produttiva nel paradiso fiscale del Liechtenstein, giusto qualche accordo in salsa europea, con il dislocamento di finti impianti di assemblaggio per dividere i guadagni dello sfruttamento.

Rifiuti solari

Infine, i vecchi pannelli di silicio da mesi accumulati ai lati degli immensi campi fotovoltaici sulle pendici di Monte Arcosu. Rifiuti industriali dimenticati, come se non ci fosse ancora una destinazione prestabilita. Un tema quello dello smaltimento di questi materiali inquinanti oggetto di svariate inchieste: molti di questi carichi attraversano il mare, ma più di una volta non arrivano sull’altra sponda. Vigilare anche in questo caso è un dovere morale. Nuove ombre sulla grande speculazione energetica in terra sarda.

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