Per due volte nell'ultimo anno ha tentato di togliersi la vita in carcere, e ancora ieri in Tribunale (dove vestiva i panni di vittima di rapina e danneggiamento), il 25enne Martin Aru, condannato a 12 anni per aver ammazzato con un colpo di pistola a Is Mirrionis il 46enne Sandro Picci, ha tentato di sfuggire alla deposizione davanti al giudice Alessandra Angioni lamentando un malessere.

Alle prime tre domande del pm Diana Lecca, che gli chiedeva della lite tra lui e i fratelli Marco e Andrea Macis (dalla quale poi era scaturito l'omicidio), ha risposto: "Ho un vuoto di memoria, non sto bene", guardando in un caso l'agente di polizia penitenziaria al suo fianco come a chiedergli di confermare la versione.

Poi però ha cominciato a parlare e ricordare cosa era accaduto il 9 ottobre 2016, poco prima di impugnare l'arma, mentre un pubblico molto interessato ascoltava quel che diceva: i suoi amici, i parenti del morto, i carabinieri della sezione di pg e gli uomini del servizio di sicurezza del Palazzo di giustizia.

LA TENSIONE - Precauzione necessaria vista la tensione per un processo nato da quello sul delitto di due anni fa, legato a fatti minori ma inevitabilmente capace di accendere gli animi. E infatti prima dell'udienza, cominciata intorno alle 14, i due gruppi si sono affrontati verbalmente nei corridoi.

I parenti di Picci cercano di raggiungerlo al suo arrivo in tribunale (foto L'Unione Sarda)
I parenti di Picci cercano di raggiungerlo al suo arrivo in tribunale (foto L'Unione Sarda)
I parenti di Picci cercano di raggiungerlo al suo arrivo in tribunale (foto L'Unione Sarda)

All'inizio senza eccessi, poi in un crescendo di accuse reciproche: "Tu non devi parlare di me", "quello era nessuno", "lo odierò tutta la vita", "non commentare mai più contro di me". Ma è stato all'arrivo di Aru che i parenti di Picci hanno agito: una corsa verso il detenuto e urla quali "stringila più forte quella corda", "impiccati", "me lo deve fare ammazzare questo bas...". Riferimento ai tentativi di uccidersi in cella con una fune.

Poi il tentativo di arrivare a contatto, sventato dagli agenti. A quel punto nella piccola aula al piano terra sono arrivati i militari dell'Arma, pronti a intervenire. L'udienza è filata liscia, al netto di qualche commento ben udibile dalle retrovie mentre Aru ricordava i momenti della lite in via Pertusola che avevano anticipato il delitto; quando poi il giovane si è alzato per andare via, i due "schieramenti" si sono fiondati nel corridoio. E i carabinieri hanno predisposto un cordone di sicurezza.

Al passaggio del 25enne sono partiti gli insulti ("impiccati", "suicidati", "oh m..."), ma è stata la frase "Martin noi ci siamo", pronunciata da un'amica per fargli sapere che non era solo, a far precipitare la situazione. I parenti di Picci hanno replicato e solo l'intervento di uno di loro ha impedito che si arrivasse alle mani e convinto tutti a uscire dall'ingresso principale. Gli altri sono passati dal retro del Palazzo su "caldo" suggerimento dei carabinieri.

Il confronto tra i suoi amici e i parenti di Picci (foto L'Unione Sarda)
Il confronto tra i suoi amici e i parenti di Picci (foto L'Unione Sarda)
Il confronto tra i suoi amici e i parenti di Picci (foto L'Unione Sarda)

IL PROCESSO - Nell'udienza, cominciata tardi anche per il clima complicato (Aru è rimasto a lungo nel cellulare della Penitenziaria prima di entrare al Palazzo), l'imputato ha ripercorso le tappe di un litigio sfociato in dramma. Tutto era nato da una frase pubblicata sul profilo Facebook dell'omicida ("Pidocchio sei, pidocchio rimani. Buongiorno, l'invidia fa male") che Marco Macis "aveva ritenuto rivolta a sé", ha detto Aru.

Su Whatsapp "gli spiegai che non era così. Pensavo fosse un amico. Mi insultava senza motivo, poi mi disse di andare da lui". Arrivato lì sotto, "entrai nel condominio". Vide Marco Macis, poi giunse Andrea Macis "e mi arrivò un pugno che mi fece volare il telefono". Quindi la fuga a piedi, lasciando "auto e ragazza lì, pensavo solo a correre", mentre i due fratelli (dopo averlo inseguito) danneggiavano la sua macchina e tenevano il suo cellulare (da qui il processo di ieri).

"Li sentii dire 'andiamo da Sandro a prendere il ferro' e 'ti ammazziamo davanti alla tua ragazza'", ha ribadito Aru. Poi lo sparo. Si va al 18 gennaio.

Andrea Manunza

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