La leggenda racconta come, alla sua nascita in un giorno di maggio di fine Ottocento, il sole abbia illuminato l’interno della casa dei genitori con una scia di luce. Per questo lo chiamarono Wa-Tho-Huk, “Sentiero lucente” nella lingua della nazione indiana Sac e Fox. Ebbe, però, anche un nome da “bianco”, Jim Thorpe, perché suo padre era per metà irlandese.

Venire al mondo in una riserva di nativi americani dell’Oklahoma di fine XIX secolo di solito significava vivere di piccoli lavori, alla giornata. Thorpe, però, aveva un altro destino scritto nel suo nome indiano e, soprattutto, aveva i suoi muscoli. Il giovane Sentiero lucente era un atleta straordinario, naturale, capace di primeggiare in tutte le discipline, dal football americano, al baseball, all’atletica leggera. Era atleta perfetto, ma soprattutto un personaggio fuori dagli schemi in un’America che lanciava una campagna di assimilazione dei nativi sopravvissuti ai massacri del secolo precedente come racconta Tommaso Giagni nel libro dedicato alla figura leggendaria di Jim Thorpe, "Afferrare un’ombra” (Minimum fax, 2023, Euro 16, pp. 210. Anche Ebook).

E un’ombra inafferrabile per gli avversari Thorpe lo fu davvero alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, le quinte dell’era moderna. Jim si aggiudicò la medaglia d’oro nelle specialità del decathlon e del pentathlon, gare dure dove non emergeva lo specialista, ma l’atleta più completo di tutti. E Thorpe era quell’atleta, senza ombra di dubbio: nel pentathlon dominò, vincendo quattro prove su cinque, mentre nel decathlon si piazzò nei primi quattro in tutte e dieci le prove disputate.

Durante la premiazione il re di Svezia, Gustavo V, lo salutò dicendogli: «Signore, lei è il più grande atleta del mondo». E il giovane pellerossa, che sapeva ben poco di sovrani e cerimoniali, rispose semplicemente: «Grazie, signor Re», poi se ne tornò in America, carico di medaglie e di gloria.

In patria trovò ad attenderlo la fama… e, soprattutto, l’altrui invidia. I giornali diffusero la notizia che Thorpe, prima delle Olimpiadi, aveva ricevuto del denaro per giocare a baseball. Chi prendeva soldi per fare sport era un professionista e non poteva partecipare ai giochi olimpici, riservato ai “puri”, ai dilettanti.

La somma in questione era misera, pochi dollari, e Thorpe si illuse che bastasse la sincerità per risolvere tutto. Scrisse: «Spero di essere parzialmente scusato dal fatto di essere stato solo un povero studente indiano e di non sapere abbastanza su tutte queste cose. Infatti, non sapevo di fare qualcosa di sbagliato, perché facevo le stesse cose che moltissimi studenti come me avevano fatto, semplicemente non usando il loro vero nome».

Tanta sincera ingenuità fu troppo per il mondo olimpico, pieno di dirigenti ipocriti e di atleti che intascavano soldi di nascosto. La condanna fu inappellabile e privò l’atleta più grande del mondo delle sue medaglie e delle sue vittorie. A Thorpe non rimase che buttarsi veramente nello sport professionistico giocando a football americano e a baseball fino a oltre quarant’anni. Alla fine degli anni Venti la sua parabola di atleta declinò, i soldi finirono in fretta durante la grande crisi economica del 1929 e i lavori divennero sempre più ingrati e saltuari. Cosa poteva pretendere, in fondo, un indiano mezzosangue nato in una riserva?

Thorpe cominciò a bere sempre di più e si ridusse a vivere in una squallida roulotte non lontano da Los Angeles. Non servì a risollevarlo neppure la decisione dei giornalisti sportivi americani di proclamarlo, nel 1950, miglior atleta della prima metà del XX secolo. E neppure servì la realizzazione nel 1951 del film “Jim Thorpe-All American” (in italiano, “Pelle di rame”) diretto da Michael Curtiz e con il divo Burt Lancaster come protagonista. Thorpe non ci guadagnò un soldo perché aveva venduto i diritti sulla sua vita nel 1931 per 1500 dollari.

Viveva oramai di beneficenza quando morì nel 1953, distrutto dall’alcol e dal rammarico per essere stato considerato “uno che aveva barato”. Il governatore dell’Oklahoma negò il permesso di erigergli un monumento e allora le sue spoglie furono acquistate da una piccola città delle Pennsylvania, Mauch Chunk. Le autorità stavano cercando un modo per attirare turisti, rinominarono la loro cittadina Jim Thorpe e scommisero su Sentiero lucente. Fu una scommessa fortunata: trent’anni dopo la morte, nel 1983, il Comitato Olimpico Internazionale riabilitò Thorpe e riconsegnò ai figli le medaglie vinte nel 1912. Quel giorno, finalmente, il sole tornò al suo posto, rendendo lucente, e per sempre, il sentiero del più grande atleta del mondo.

La copertina
La copertina
La copertina
© Riproduzione riservata