Non solo arte culinaria, ma anche scenografia, politica e diplomazia: questo era un banchetto nel cuore delle sontuose corti rinascimentali. Non solo e semplicemente un momento di piacere gastronomico, ma un vero e proprio teatro del potere. Era un palcoscenico dove il signore e il principe si ergeva come protagonista assoluto, circondato da tutta la sua corte, che, nel contempo, gli rendeva omaggio e contribuiva a mostrare al mondo la grandezza dell’ospite. Le tavole imbandite diventano vetrine di magnificenza, dove ogni piatto racconta un’alleanza, ogni gesto di servizio è una coreografia tesa a conquistare il pubblico, ogni intermezzo spettacolare può dispiegare, dissimulandole con la squisita arte della seduzione mondana, strategie politiche brutali e spietata vo-lontà di dominio.

A questo universo apparentemente così lontano dalla nostra sensibilità – ma i potenti ancora oggi non cercano di impressionare gli ospiti e il “popolo”!? – è dedicato l’ultimo saggio di Jean-Claude Vigueur, uno dei massimi conoscitori della storia politica del Medioevo e del Rinascimento italiano. Nel volume A tavola con i signori (il Mulino, 2025, Euro 36,00, pp. 300) Vigueur ci ricorda, infatti, che il Rinascimento è stato età di artisti e letterati, ma anche di signori e principi che facevano il bello e il cattivo tempo e non amavano certamente confondersi con il volgo. Anzi, proprio in quest’epoca i ceti dominanti volevano mostrare al mondo la loro distanza dal resto della società con il loro modo di vestire, di atteggiarsi, di conversare e anche di mangiare e stare a tavola.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

All’epoca il consumo di determinati cibi, ma soprattutto la cornice all’interno della quale venivano consumati, divenne un modo per mostrare a tutti il potere del signore o del principe di turno. Un potere che non era più quello del Medioevo, espresso dalla forza fisica e dall’abilità in combattimento, ma che ora era più raffinato, incentrato sulla diplomazia e lo sfarzo delle corti, ma non meno spietato. Il cibo doveva essere ostentato e la tavola diveniva il palcoscenico dove rappresentare, in maniera teatrale, opulenza, decoro, etichetta e soprattutto distanza dalle misere mense della maggior parte della popolazione.

E come a teatro vi era un impresario, cioè il signore, un autore, il capocuoco, e infine un regista, cioè lo scalco, il soprintendente alle cucine principesche e aristocratiche, alla cui creatività era affidata la rappresentazione a tavola. Rappresentazione nella quale non si doveva trascurare alcun aspetto, dal decoro della sala, alle tovaglie, agli addobbi da tavola chiamati trionfi, dai piatti di portata a quelli individuali. Il servizio era quindi un elemento essenziale di ogni banchetto spettacolo animato da interpreti di grande professionalità e dotati anche di un certo virtuosismo. Così vi erano coppieri, camerieri, ma anche credenzieri capaci, con abile piegatura, di dare ogni forma voluta ai tovaglioli mentre i trincianti erano in grado di tagliare il pollame in aria, tenendo la carne infilzata su un forchettone.

Il culmine di questa tendenza all’ostentazione si raggiungeva nelle grandi occasioni, con i banchetti a tema come quello organizzato per il matrimonio del duca di Ferrara Alfonso II d’Este nel 1565. Protagonista del convito era Nettuno e tutto venne predisposto perché gli invitati si sentissero ospiti del dio del mare in persona. La scenografia venne pensata perché la tavola sembrasse realmente in fondo al mare; piatti e vassoi da portata vennero realizzati tutti a forma di conchiglia e appositamente per l’occasione. I cibi, dalle carni al dolce, vennero modellati a forma di pesci e di mostri marini. Il banchetto fu un trionfo per il duca di Ferrara e cementò il potere del signore. Soprattutto tramandò, assieme a tanti altri conviti descritti nelle cronache rinascimentali, un’immagine splendida e allo stesso tempo artefatta dei potenti del XV e XVI secolo, potenti che investivano sulla teatralità per cementare il loro potere, troppo spesso illegittimo e usurpato.

Una teatralità che serviva a definire uno spazio conviviale distinto, separato e protetto rispetto al resto del mondo, uno spazio dove il privilegio sociale e il potere politico si contrapponevano in maniera plateale al mondo della fame e della miseria che esisteva al di fuori delle corti. In questo senso l’opulenza, la volontà di distinzione e il culto della ricercatezza aprirono la strada alle mense sempre più esclusive e sempre più fantasmagoriche della nobiltà e dei sovrani del Seicento e del Settecento.

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