L'automobilismo rimane uno sport popolare anche se non smuove le passioni e non accende il tifo come fa oggi il calcio. Nell’Italia del Dopoguerra, invece, le corse automobilistiche rappresentavano un evento irrinunciabile per gli italiani che vedevano nella velocità e nei bolidi sfreccianti su strade e circuiti il simbolo della rinascita dopo le tragedie della Seconda guerra mondiale. Erano anni di automobilismo eroico, in cui guidare una monoposto da corsa equivaleva però troppo spesso ad andare in battaglia. Sapevi di partire, ma arrivare sano e salvo alla fine era tutto un altro discorso anche perché si correva a velocità spaventose con auto che sfrecciavano spesso in mezzo alle case e alla folla senza che ci fosse alcuna protezione per i piloti e neppure per gli spettatori.

Proprio perché così avventuroso e rischioso quell’automobilismo oggi può essere raccontato come un vero e proprio romanzo. Lo dimostra il giornalista Luca Delli Carri nel suo Gli indisciplinati (Fucina, 2019, pp. 560), in cui vengono rievocate le vicende dei cinque giovani piloti che corsero per la Ferrari tra il 1956 e il 1959: Eugenio Castellotti, Alfonso Portago, Luigi Musso, Peter Collins, Mike Hawthorn. Erano tutti campioni e tutti avevano un sogno: vincere. Erano spavaldi, incoscienti e snobbavano la paura. Erano idolatrati dai tifosi e accompagnati da donne bellissime: attrici, star dello spettacolo e della nascente televisione. Nel giro di tre anni bruciarono la loro vita spingendo i loro limiti sempre più all’estremo e perdendo la vita alla guida di un’auto da corsa. Ma perché definirli “indisciplinati”? Lo chiediamo all’autore del libro, Luca Delli Carri:

"Erano indisciplinati perché erano molto lontani dal prototipo di pilota superprofessionista che c’è oggi. Ne combinavano di tutti i colori con le loro automobili. Se non gli andava di correre rompevano apposta la macchina oppure si giocavano i premi delle gare che non avevano ancora disputato a carte così che poi dovevano spingere oltre il limite per avere i soldi per pagare i debiti. Insomma, erano degli scapestrati che però accendevano la passione come oggi non accade più. Soprattutto erano ragazzi molto ambiziosi. Correvano con il sogno di rimpiazzare il più grande campione dell’epoca, l’argentino Juan Manuel Fangio, plurivincitore di titoli mondiali, nel cuore della gente e soprattutto in quello di Enzo Ferrari. E per quel sogno erano disposti a correre ogni rischio".

Alcuni appassionati rimpiangono quell'epoca eroica dell'automobilismo. Ma veramente bisogna avere rimpianti?

"Il fascino di quelle corse risiedeva nel pericolo, nella possibilità di morire che era molto alta. Quei piloti erano cavalieri del rischio ed erano disposti a correre in condizioni oggi non più accettabili. Si può essere affascinati da quelle corse, ma rimpiangerle non ha senso".

Nel libro si comprende il coraggio di questi piloti in corsa, ma emerge anche le loro fragilità appena scesi dall’abitacolo…

"Ho voluto raccontare non solo l'automobilismo dell'epoca, ma i piloti come uomini, con le loro virtù e le loro debolezze. Alle folle apparivano belli e dannati, circondati da donne bellissime e padroni del successo, ma con una spada di Damocle costantemente appesa sopra la testa. Ed erano pazzi per le corse e avrebbero gareggiato anche gratis. E su questo contava Enzo Ferrari, che li lusingava, li metteva abilmente l'uno contro l'altro, giocava sulla loro ambizione perché andassero sempre al limite".

Enzo Ferrari è l'altro grande protagonista del libro. Che idea si è fatto di questo personaggio oramai mitico?

"Intanto per raccontare la Ferrari e l'automobilismo di quell'epoca ho avuto la fortuna di poter contare sulla testimonianza di Romolo Tavoni, che per dodici anni è stato al fianco del patron di Maranello come segretario e poi come direttore sportivo. Senza le parole di Tavoni non avrei potuto parlare dell’uomo Ferrari come ho cercato di fare nel libro. Tornando alla domanda, è difficile definire in poche parole uno dei grandi protagonisti dell’Italia del Novecento. Era certamente un uomo deciso, che andava dritto allo scopo senza guardare in faccia a nessuno. È riuscito a costruire una realtà che continua a prosperare anche a distanza di trent’anni dalla sua morte e non è cosa facile vedendo quanti costruttori di automobili sono scomparsi nel corso degli anni. Per ottenere questo successo Ferrari doveva, però, piegare il mondo alla propria volontà, anche ricorrendo a una grande spregiudicatezza".

L'automobilismo oggi spesso annoia, soprattutto alla televisione. Può tornare a essere una passione popolare come un tempo?

"Oggi quelle passioni che circondavano il mondo delle corse più di cinquant’anni fa le accende solo il calcio. Quelle passioni appartengono a un’epoca dove in nome del mito della velocità tutto era concesso e anche questa mitologia ci appartiene sempre meno. Oggi la velocità non è più qualcosa di irraggiungibile. La pratichiamo tutti se non sulla strada in altre forme, come l’aereo, come la comunicazione. L'automobilismo ha perso così la sua aura magica, la sua popolarità per diventare uno sport d’élite, per una nicchia di appassionati".
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