Ha descritto per primo i nuraghi, ha individuato la loro funzione di fortezze. E, proprio a causa di questi studi, Sigismondo Arquer è finito al rogo. In realtà, a manovrare nell’oscurità perché venisse condannato a morte furono le consorterie nobiliari, vista la sua intransigenza nell’azione amministrativa. E utilizzarono proprio quegli studi per far sì che l’Inquisizione spagnola decidesse di spedirlo sul rogo.

Una vicenda che merita di essere raccontata: Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530; a 17 anni ottiene la laurea in Diritto civile e Canonico a Pisa e, qualche anno più tardi, quella in Teologia nella vicina Siena. Dopo aver viaggiato in Svizzera e in Spagna, decide di tornare a Cagliari per intraprendere la carriera giudiziaria: a 23 anni viene nominato avvocato fiscale e succede a Girolamo Olives. Rigoroso, intransigente, fedele alle leggi, si attira l’odio dei nobili, preoccupati di perdere i loro privilegi. In particolare, finisce nel mirino della famiglia feudataria degli Aymerich.

E i suoi nemici riescono nel loro intento: viene accusato di malversazione (accusa che cade quasi subito) e di negromanzia nel processo intentato contro il viceré Antonio de Cardona; è costretto a fuggire in Spagna dove, però, la principessa reggente lo scioglie da tutte le accuse e gli consente di tornare nell’Isola. Ma la sua tranquillità dura poco: i nemici si giocano una carta quasi imbattibile in quegli anni, l’accusa di essere eretico. In un primo momento, viene assolto dall’arcivescovo Parragues. Ma, nel 1562, finisce di nuovo davanti all’inquisitore Diego Calvo: l’anno dopo, mentre sta tornando in Spagna, viene arrestato.

Contro di lui, l’accusa di aver criticato il clero sardo (sostiene, a ragione, che i sacerdoti sardi siano meschini e ignoranti) e anche le tendenze riformistiche che Arquer non ritenne mai luterane o eretiche, anche perché sono nel solco delle parole del papa Pio II, infastidito dal fatto che i tanti casi di concubinato tra i preti finiscono con il portare via le risorse destinate ai più poveri.

Ma soprattutto, per dare credito alle accuse, entrano in gioco proprio i suoi studi che finiscono con il trasformarsi con il maggior indizio a suo carico. I suoi accusatori tirano fuori un suo testo in latino, “Sardiniae brevis istoria et descriptio: Tabula chorografica insulae ac metropolis”, nel quale, appunto, descrive le sue scoperte. Per gli studiosi moderni, è la prima sintesi dei fatti più antichi della Sardegna.

Per i suoi accusatori, invece, è la dimostrazione del fatto che Arquer è un eretico. Perché quell’articolo, scritto mentre si trovava in Svizzera, fa parte della “Cosmografia universalis”, scritta dal cartografo e cosmografo tedesco Sebastian Münster, un frate francescano diventato protestante.

Arquer viene rinchiuso nel carcere di Toledo dove resta per otto anni, nel corso dei quali subisce innumerevoli torture. Alla fine, dopo tantissimi interrogatori da parte dei giudici, viene condannato al rogo. I giudici non gli perdonano, in particolare, il fatto di essere un “eretico negativo”: lui continua a proclamare la sua ortodossia cattolica mentre per loro è sicuramente eretico. Addirittura, gli viene prospettata anche la possibilità di essere salvato se ammette l’eresia e chiede perdono. Possibilità che lui rifiuta perché, sostiene, sarebbe “nient’altro che mentire per scampare alla morte”. Se questa è la condizione per vivere, spiega agli inquisitori, è meglio morire con la coscienza tranquilla.

E, purtroppo, alla fine, i suoi accusatori lo “accontentano”: il 4 giugno 1571, poche settimane prima della battaglia di Lepanto, Arquer viene condotto sul rogo di Toledo. E proprio a quel triste epilogo è legato l’omaggio che gli ha fatto Giulio Angioni, autore del romanzo intitolato, appunto, “Le fiamme di Toledo”. Ma non è certo l’unico intellettuale sardo a ricordarlo a secoli di distanza: a lui si sono ispirati anche Francesco Masala e Giulio Angioni.

Omaggio quasi scontato, visto lo spessore del personaggio. Che, tra le altre cose, fu anche uno dei primi studiosi della lingua sarda. A lui si deve, per esempio, la traduzione del “Padre nostro”. “Babu nostru sughale ses in sos che­lus, santu siada su nomine tuo. Ben­giad su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua, comenti in chelo et in sa terra, su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros is debitus nostrus comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus e no nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteo tuo esti su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos. Amen”.

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