La carriera criminale di Cesare Battisti, che durante la latitanza francese ha avuto il tempo di rifarsi una vita, frequentare il mondo della cultura transalpina e diventare scrittore, è lunga. Dopo i primi arresti nel 1972 (rapina, aveva 18 anni) e del 1974 (sequestro di persona), l’ex latitante finisce in cella anche nel 1977 (aggressione) e in quella occasione conosce Arrigo Cavallina, ideologo dei Pac (i Proletari armati per il comunismo) entrando in seguito a farne parte e rendendosi responsabile di assalti armati nelle banche e nei supermercati. Poi alza il livello e partecipa a quattro delitti, sino all’arresto del giugno del 1979. Evaso nel 1981 e da allora in fuga sino al 2019, si rifugia prima in Messico e poi in Francia, dove si sposa e dà alla luce due figli. Dal 2004 al 2018 è in Brasile, dove trascorre anche diversi anni in cella prima che l’allora presidente Lula gli conceda nel 2010 il diritto di asilo confermato dalla presidente Dilma Roussef nel 2011 (temeva che il suo illustre ospite potesse subire «persecuzioni a causa delle sue idee»). Arrestato e liberato nel 2015 per l’annullamento del permesso di soggiorno, viene fermato nel 2017 al confine con la Bolivia e, rilasciato, si dà nuovamente alla latitanza a fine 2018, quando per lui arriva l’ordine di estradizione. La sua fuga termina un mese dopo in Bolivia: tempo due giorni e l’interpol lo riporta in Italia, in Sardegna, nel carcere di Massama a Oristano.

Il carcere di Massama (foto archivio l'unione Sarda)
Il carcere di Massama (foto archivio l'unione Sarda)
Il carcere di Massama (foto archivio l'unione Sarda)

Qui la Dda di Milano lo interroga approfonditamente due volte nel 2019. Colloqui nei quali l’ex del Pac racconta del suo passato criminale e ammette finalmente le proprie responsabilità. La prima visita del pubblico ministero Alberto Nobili e di Cristina Villa, vicequestore della Digos di Milano, risale al 23 marzo 2019. L’ex latitante ha incontrato altre volte in precedenza il magistrato, ma stavolta è lui a chiamarlo: vuole rendere dichiarazioni sui fatti per i quali è stato condannato in via definitiva pur non essendosi mai presentato al processo (mancanza tanto criticata all’estero, come se darsi alla fuga rendesse automaticamente impossibile celebrare un giudizio nonostante le prove a disposizione delle parti, difensori compresi). Ad assisterlo ci sono gli avvocati Davide Steccanella e Gianfranco Sollai. Battisti sostiene di voler parlare delle sue esperienze passate riguardanti «tutta la fase» della sua vita «nel mondo della illegalità» e sottolinea davanti agli inquirenti che «se non fossi evaso nel 1981 probabilmente avrei fatto parte anche io del gruppo di chi si è dissociato dalla lotta armata», strada introdotta dalla politica per spingere gli appartenenti ai gruppi terroristici che avevano insanguinato l’Italia durante gli Anni di piombo a prendere le distanze dalla lotta armata in cambio di sconti di pena. Se così fosse accaduto, sottolinea l’ex latitante, forse «avrei reso in quegli anni dichiarazioni relative alle mie responsabilità riguardanti solo la mia persona senza chiamarne in causa altre». Però sino a quell’incontro in carcere col pm «non mi è capitata l’occasione», anche perché si trovava altrove, libero, «né ho avvertito la necessità di ripercorrere le mie esperienze». A Oristano decide di farlo, sostiene, «non per ottenere benefici che, mi rendo conto, nella mia posizione non sono prevedibili, almeno nel breve periodo», ma – rivela - per una scelta «già maturata» quando è scappato dal penitenziario e che però aveva dovuto «dissimulare coi miei ex compagni di lotta armata», altrimenti avrebbe messo a rischio «la mia stessa vita».

Cesare Battisti (foto Ansa)
Cesare Battisti (foto Ansa)
Cesare Battisti (foto Ansa)

Le accuse? «Sono vere»

In sostanza davanti al magistrato sostiene che negli anni della lunga latitanza era cresciuto in lui il desiderio di rinnegare ciò che era stato e di aver addirittura avuto la possibilità di intervenire, in qualche misura, per agevolare la fine di uno dei periodi nazionali più oscuri. Così rivela di essere evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 dopo la condanna a 12 anni per banda armata «grazie all’aiuto di appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata» i quali «ritenevano che avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio finalizzato a cessare l’attacco nei confronti dello Stato e mantenere la disponibilità delle armi per scopi difensivi e aiutare altri compagni a evadere». Ma «in realtà già dentro me covavo l’idea della dissociazione e non a caso circa due mesi dopo decisi di abbandonare tutto e rifugiarmi in Francia». Dunque, dice, la fuga oltralpe era dovuta a un malessere interno legato al rifiuto della violenza, non alla necessità di non finire in carcere. «Da quel momento sono stato 37 anni latitante senza rendere alcuna dichiarazione sui fatti che mi hanno portato alla condanna all’ergastolo». Decisione che invece, contrariamente a quanto sempre sostenuto durante il suo periodo di residenza all’estero, è giusta: «Ho letto a Massama le sentenze che mi riguardano. Sinteticamente posso dire che le vicende che mi riguardano ricostruite nelle sentenze sono vere». Tra queste, gli «omicidi di Santoro, Sabbadin, Torregiani, Campagna». E «sono veri» anche «i nomi dei responsabili».

Un’ammissione che ha sgretolato decenni di costruzione “romantica” sulla fuga sua e di innumerevoli altri terroristi, ritenuti perseguitati politici dalle Amministrazioni francesi che si sono succedute negli ultimi decenni e da innumerevoli artisti e intellettuali d’oltralpe convinti che l’espatrio e l’asilo politico fossero necessari a evitare un’ingiusta persecuzione da parte della magistratura e delle autorità italiane. Invece «ho cominciato a delinquere a 17 o 18 anni commettendo rapine e furti nel Lazio», spiega Battisti davanti al pubblico ministero.

La causa comunista

«La mia famiglia è sempre stata vicina al Pci», spiega al magistrato, «per cui, influenzato da questa ideologia e iscritto alla Fgci», la federazione giovani comunisti, «e poi a Lotta continua», come Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani (quest’ultimo tra i fermato lo scorso 28 aprile in Francia), tutti condannati in via definitiva per l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi nel 1972 a Milano. «Ho dato diverse volte somme di denaro provento di furti e rapine per la causa comunista. Ho commesso quei reati almeno sino al 1974, quando fui arrestato per una rapina e chiuso nel carcere di Latina. Erano gli anni delle rivolte carcerarie alle quali partecipai attivamente anche quando fui trasferito prima a Regina Coeli», una delle carceri di Roma, «e poi a L’Aquila. Fui detenuto fino al 1976 e faccio presente che durante la mia carcerazione ebbi modo di individuare concretamente un gruppo già consolidato nella lotta armata. Fui molto influenzato dalla personalità di Nicola Pellecchia», tra i dirigenti del Nap (Nuclei armati proletari), «che conobbi a Regina Coeli o Spoleto. Il padre divenne in seguito mio avvocato. Uscito dal carcere nel 1976 ero fortemente intenzionato a militare stabilmente in un gruppo armato. Feci il servizio militare a Castelfidardo nell’artiglieria e poi a Udine, dove intervenne un ordine di carcerazione per una precedente rapina. In carcere a Udine ho conosciuto Arrigo Cavallina, che faceva parte dell’organizzazione Rosso. La sede della rivista omonima era in via Disciplini a Milano. Con Cavallina parlavamo spesso di politica e lotta armata e concordammo nell’idea che quando fossi uscito mi sarei aggregato al suo gruppo, operativo già da un po’ di tempo, che poi diventerà Proletari armati per il comunismo», i Pac. «Scarcerato, tornai a Latina e ripresi blandi contatti con Lotta continua, poi dovetti finire il servizio militare a Torino. Era il 1977 circa. A Torino conobbi alcuni appartenenti al gruppo Militari autonomi organizzati. Lo stesso anno Cavallina fu scarcerato, avevo mantenuto con lui i contatti attraverso la madre e alcuni compagni. Andai a trovarlo a Verona. Ero già ricercato per una rapina commessa a Latina in un ufficio postale, per questo decisi di entrare in clandestinità e passare alla lotta armata con i Pac. All’inizio con loro ho commesso varie rapine a scopo di finanziamento, vivevo un po’ a Verona, un po’ a Milano e in altri posti della Lombardia».

Cosa fossero i Pac e quali azioni avesse intrapreso con loro, sarà illustrato nella prossima parte del racconto.

(2- continua)

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