Lo sguardo ti implora. «Lo faccia sapere a chi è fuori: qui dentro si vive male. Siamo in quattro in celle da due, d’estate si muore di caldo, d’inverno patiamo il freddo. Giusto che paghiamo per i nostri errori. Ma chiediamo solo di trascorrere la nostra detenzione in modo più dignitoso». Varcare il portone del carcere di Uta significa dimenticarsi per un po’ della vita di tutti i giorni. Qui i minuti e le ore trascorrono sempre nello stesso modo. E per i detenuti non è facile andare avanti. «Se sono ancora qui», racconta un omone che dietro le sbarre ha già trascorso più di 30 anni, «è perché sono stato forte. Molto forte. Altrimenti sarei già all’altro mondo».

Le maglie dei calciatori

Le celle raccontano tanto di chi sta scontando pene per ogni tipo di reato. Accanto ai poster, ecco le maglie di calciatori. Abbondano quelle del Cagliari. «Ma qui», spiega un giovane detenuto, «ci sono soprattutto tifosi di altre squadre come Juventus, Milan e Inter». Questi ragazzi, finiti nei guai soprattutto per reati legati allo spaccio di droga e ad atti di violenza, sperano un domani di poter uscire e andare a seguire una partita allo stadio.

Una cella del carcere di Uta
Una cella del carcere di Uta
Una cella del carcere di Uta

Ora devono scacciare cattivi pensieri, combattere la noia e affrontare le sfide che la vita in cella ti presenta ogni giorno. Perché qui dentro, e gli agenti della Polizia Penitenziaria lo sanno bene, l’idea di togliersi la vita attraversa la mente di tanti. C’è chi – non tanti per fortuna – ci prova. Le risse, gli episodi violenti non mancano perché dietro le sbarre anche la più piccola delle cose può diventare una bomba a orologeria.

Un agente della Polizia Penitenziaria
Un agente della Polizia Penitenziaria
Un agente della Polizia Penitenziaria

«Dobbiamo intervenire spesso. C’è chi prova a suicidarsi, chi aggredisce il compagno di cella. C’è chi mette fuoco ai materassi o agli arredi. Insomma il lavoro, spesso pericoloso e complicato, non manca», dicono quasi sottovoce due poliziotti. E le denunce dei sindacati della Polizia Penitenziaria non si contano più.

I talenti

Per molti il tempo sembra essersi fermato. «Ho già passato venti anni e ne devo ancora fare altri dieci per una serie di rapine», confida un cinquantenne, accento nuorese. Fuori c’è chi lo aspetta. Ma manca ancora troppo prima che l’abbraccio dei cari possa diventare realtà. Accanto ci sono dei ragazzi. Possono essere suoi figli. Sono dei detenuti “speciali” perché hanno la possibilità di lavorare. Sempre all’interno del carcere: nei laboratori di falegnameria ci si inventa di tutto.

Un detenuto al lavoro in uno dei laboratori all'interno del carcere di Uta
Un detenuto al lavoro in uno dei laboratori all'interno del carcere di Uta
Un detenuto al lavoro in uno dei laboratori all'interno del carcere di Uta

«Io realizzo scatolette in legno», spiega un detenuto. «Ho imparato dai più grandi, da quelli esperti». C’è un artigiano che riesce a costruire piccoli vascelli ma anche maschere e oggetti tipici dell’artigianato sardo. Un talento per ora confinato in queste quattro mura. Ma almeno, raccontano, «il tempo così trascorre più velocemente». Si sconfigge la noia, si allontanano cattivi pensieri e si va avanti. «Il lavoro», conferma l’omone che in trent’anni ha conosciuto diversi penitenziari, «ti aiuta ad avere speranza. Io non sono più giovanissimo ma per i ragazzi imparare qualcosa è fondamentale per poter fare qualcosa un domani quando usciranno da qui».

La dignità

Nella sezione dei lavoratori il clima non è di festa ma certamente si respira più tranquillità. Lo conferma anche il direttore del carcere di Uta, Marco Porcu: «I detenuti che hanno un’occupazione sono più sereni e dunque più gestibili. I progetti che permettono di avere dei lavori all’interno dei penitenziari dovrebbero essere potenziati perché oltre a formare e poter consentire un più semplice reinserimento nella società quando si uscirà dal carcere, trasmettono ai detenuti una dignità e una tranquillità che permette agli agenti della Polizia Penitenziaria e all’Amministrazione di gestire il tutto con più facilità».

«Fateci uscire dall’inferno»

Ma chi lavora, nel carcere di Uta, è una minoranza. Gli altri possono fare ben poco. C’è la biblioteca, c’è chi può leggere un libro o un giornale. Ci sono gli spazi ricreativi, per fare una partita a biliardino o a tennistavolo. Qualche area per lo sport. E terreni da coltivare. «I prodotti», sottolinea una agente della Penitenziaria indicando gli orti, «vengono dati alla Caritas». Dalle celle c’è chi urla: «Fateci uscire, questo è l’inferno». «Venite qui a vedere come ci fanno vivere».

Una "sezione" del carcere di Uta
Una "sezione" del carcere di Uta
Una "sezione" del carcere di Uta

Anche nel carcere di Uta si sopravvive. Per alcuni detenuti le occasioni di riscatto sociale ci sono e tanto si sta facendo per aumentarle. Per troppi la cella rischia invece di essere l’unico orizzonte da osservare. E se una volta fuori, scontata la pena, il 70 per cento dei detenuti commette nuovamente un reato e ritorna così in carcere, probabilmente qualcosa – forse più di qualcosa – nei penitenziari non funziona. «Prima di tutto», è la filosofia del detenuto omone, «devi fare affidamento su te stesso. Altrimenti qui non sopravvivi. Le amicizie che nascono sono importanti, ma anche queste se non sei forte, psicologicamente, non bastano».

Un corridoio di una delle ali del carcere di Uta
Un corridoio di una delle ali del carcere di Uta
Un corridoio di una delle ali del carcere di Uta

E guardando i tanti ragazzi pieni di vita, chiusi dentro queste quattro mura, e ascoltando le loro storie, spesso normali con l’aggiunta di un incidente di percorso, i rimpianti sono tanti.

© Riproduzione riservata