Era conosciuto come “il terrorista”. Già, perché a Palermo e dintorni era sufficiente un’occhiata strana, una parola di troppo oppure ambigua per essere condannati a morte da Rosario “Saro” Riccobono, potente boss della famiglia di Partanna-Mondello. Il quale, da vero e proprio sadico, amava assistere, spesso anche intervenire, alle esecuzioni delle sue vittime. Con questa fama da duro, Riccobono, classe 1929, palermitano, non poteva non accedere al gotha di “Cosa nostra” siciliana. Da metà degli anni Settanta del secolo scorso, alleato di Stefano Bontate, il “principe di Villagrazia” capo del mandamento di Santa Maria del Gesù, e di Salvatore “Totuccio” Inzerillo, boss della cosca di Passo di Rigano, con i quali trafficava eroina facendo accrescere contestualmente ricchezza e potere. Quindi, alla morte dei due capimafia (uccisi entrambi nella primavera del 1981), non si pose problemi a passare dall’altra parte della barricata e a fare affari con i corleonesi di Totò Riina.

Era rispettato Riccobono, sia perché osservava rigorosamente i dettami e le regole dell’organizzazione segreta, sia perché il suo carisma e la sua autorevolezza di “Omu di panza” erano virtù riconosciute da tutti nell’ambiente. <Il dottore Contrada è nelle nostre mani>, disse un giorno a Tomaso Buscetta, allora rientrato dal Brasile da latitante, mentre gli proponeva una villa dove nasconderlo: <Qui non verranno mai a cercarti, anzi, se ti portano in Questura chiedi di parlare solo con lui>. Bruno Contrada, capo della Squadra mobile e uomo del Sisde, è stato condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione di tipo mafioso per le accuse rivoltegli da diversi collaboratori di giustizia. Riccobono si vantò di aver pagato un’auto che Contrada aveva regalato a una sua amante.

Insomma, soldi, amicizie di peso e la considerazione dell’universo di Cosa nostra, facevano del boss una persona apparentemente sicura di sé e del suo destino. La sua famiglia, mai infiltrata dai corleonesi come era successo a tutte le altre dell’intera Sicilia, sembrava avulsa dalla “mattanza” scatenata da Totò Riina contro i palermitani e i loro alleati. Oltre un migliaio di morti all’inizio degli anni Ottanta non avevano nemmeno sfiorato il clan di Partanna-Mondello. Che continuava a prosperare senza problemi. Addirittura, Saro Riccobono si riteneva una sorta di intoccabile. Un’aura che lo accompagnò sino a quasi tutto il 1982. Sì, perché a fine novembre ricevette un invito a pranzo nella tenuta della Favarella di proprietà di Michele Greco. A telefonargli era stato Riina in persona ricordandogli che ci sarebbero stati, naturalmente, altri ospiti “illustri” dell’organizzazione e che l’occasione, a poche settimane dalle festività natalizie, era un modo per stare insieme come pochi ne capitavano durante l’anno.

All’arrivo, in compagnia di Giuseppe Lauricella con il figlio Salvatore, Francesco Cosenza, Carlo Savoca, Vincenzo Cannella, Francesco Gambino e Salvatore Micalizzi, Riccobono venne accolto dallo stesso Riina che, più che mai sorridente e gioviale, gli disse: <Oggi niente cattivi pensieri né affari, pensiamo solo a riempirci la pancia>. Un pasto tipico da festa, con arrosto e formaggi speciali, annaffiati da bottiglie di ottimo vino rosso. Consumato il pantagruelico pranzo, gli ospiti si accomodarono nelle poltrone, in stanze diverse della grande casa, per una piccola pennichella pomeridiana.

Era il momento che Riina e i suoi aspettavano. Un fischio per chiamare a raccolta Bernardo Brusca, suo figlio Giovanni, Balduccio Di Maggio, Giuseppe Giacomo Gambino, Antonino Madonia e l’immancabile Pino Greco “Scarpuzzedda”, il killer più affidabile. Riccobono venne strangolato nel sonno, stessa sorte per gli altri che lo avevano accompagnato. I loro corpi, denudati, vennero bruciati sulle enormi griglie che prima erano state utilizzate per cuocere gli agnelli, i resti gettati in bidoni pieni di acido. Nelle ore successive di quel 30 novembre 1982 sino al pomeriggio del giorno dopo, tra le strade di Palermo i sicari corleonesi sterminarono il resto della famiglia di Partanna-Mondello arrivando a decapitare Vito Riccobono, fratello di Saro che niente aveva a che vedere con il clan.

Ma per Totò Riina, non a caso chiamato “la bestia” per la sua ferocia, era un ulteriore passo verso la consacrazione come “capo dei capi” di Cosa nostra che sarebbe arrivata di lì a poco. Il “terrorista” Riccobono e il suo piccolo regno non avevano fatto i conti con le ambizioni di Totò ’u curtu, altro nomignolo di Riina derivato dall’altezza. Per sottolineare l’enormità dell’azione criminale commessa, il boss corleonese affermò: <Siamo stati più bravi degli americani e del loro massacro di San Valentino>. Giusto per la cronaca, il 14 febbraio 1929 a Chicago Al Capone fece uccidere sette uomini della banda rivale. Riina ne fece ammazzare più di venti.

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