Vittorio Pitzalis ci ha preso gusto. Tre anni fa, a 57 anni (è il caso di dire) suonati, il debutto discografico, con "Jimi James": un primo album arrivato dopo mezzo secolo di musica su palchi grandi e piccoli, premi, riconoscimenti e periodi più o meno lunghi di silenzio e disillusione. «Ci avevo messo una pietra sopra, al sogno di un disco», ricorda lui. Ora, a 60, nel pieno della paralisi della scena live causa pandemia, il bluesman cresciuto sulle rive del Pirrissippi (il copyright è suo) concede il bis: il nuovo album, uscito nelle scorse settimane, si intitola "The time has come". Le prime tre tracce riprendono il suono acustico del primo, dalla quarta in poi entra in scena l'elettricità: ma con classe, e ancora una volta con quella sensazione delle "poche cose, tutte al posto giusto". Chitarre, ovviamente, di tutti i tipi: acustica, resofonica, dodici corde, la Stratocaster. Etichetta e produttore restano gli stessi: Mgjr records e Michelegiuseppe Rovelli: «Non fosse per lui, nulla di tutto questo sarebbe successo», giura Pitzalis, «non lo ringrazierò mai abbastanza».

Vittorio Pitzalis in studio con la sua Stratocaster (foto Francesca Ardau)
Vittorio Pitzalis in studio con la sua Stratocaster (foto Francesca Ardau)
Vittorio Pitzalis in studio con la sua Stratocaster (foto Francesca Ardau)

L'OMAGGIO A JIMI Nove tracce: sei originali e tre cover. Fra queste ultime, da pelle d'oca una "Are you experienced?", canzone-bandiera di Jimi Hendrix. Inizia con una strofa cantata a cappella: solo voce, una voce scamosciata, levigata dagli anni, morbida come un cuoio strofinato a lungo con un foglio di carta vetrata a grana sottilissima, una voce che si arrampica senza sforzo su un falsetto e prega un gospel. Non esattamente quello che uno si aspetterebbe. «Il coronamento di un sogno», si commuove Vittorio Pitzalis: «Fare un omaggio al mio chitarrista preferito da sempre e per sempre. Quella canzone ce l'ho avuta dentro per dieci anni, prima di inciderla: c'era già tutto l'arrangiamento. Ma non l'inizio. L'idea di quella strofa solo voce è di Michelegiuseppe Rovelli: mi ha registrato senza che io lo sapessi, mentre stavo scaldando la voce. Ha dovuto faticare per convincermi che sarebbe stato perfetto iniziarla così: aveva ragione, altroché. Gli ho detto che sognavo un quartetto d'archi e lui: "E che problema c'è?" Fatto. E con musicisti pazzeschi».

La copertina del nuovo album
La copertina del nuovo album
La copertina del nuovo album

IL BAMBINO SOTTO IL TAVOLO Vittorio Pitzalis, per chi vive in Sardegna e segue la scena blues isolana, è un'istituzione. Fra lui e il genere è più che amore: è passione divorante, oggetto di pratica e di studio («Non so nemmeno quanti libri ho letto sul tema»). La tecnica, dice, importa fino a un certo punto: «Fare gli assoli da mille note al minuto non significa niente. Sai cos'è che conta, nel blues? Il cuore».

Indietro veloce. Cagliari, anno 1965. Un bambino di cinque anni e mezzo, nascosto sotto un tavolo, assiste di nascosto alle prove di un gruppo beat. Il chitarrista, fan sfegatato dei Rolling Stones, è suo fratello maggiore («Mia sorella, invece, era per i Beatles»). È lui a regalare al piccolo Vittorio la prima chitarra («Una classica, marca Catania, cui mio fratello aveva montato - poveretta - delle corde in metallo»). E sono sue le elettriche su cui, appena solo in casa, il bambino allunga le mani affascinato, senza nemmeno immaginare che per farle suonare occorra una cosa misteriosa: un amplificatore. Poco importa: strimpellare quelle chitarre è un'investitura, una consacrazione alla quale Pitzalis rimarrà fedele, resistendo anche alle pressioni di un padre che, al massimo, era disposto a concedergli la fisarmonica: «La chitarra, per lui, era roba da perdigiorno».

IN GIRO CON LE BAND Avanti veloce. Metà anni '70, la prima band: Tva, dalle iniziali dei nomi dei tre musicisti. Poi, dopo una serata in solitaria in un locale di via Garibaldi a Cagliari («Era il periodo dei Bee Gees da discoteca e di "Sex & drugs & rock'n'roll"»), l'ingresso in un gruppo che faceva le piazze («Grande palestra») e a metà anni Ottanta la prima band davvero "sua": «I Welfare State, con cui - anteprima - forse riusciremo a incidere ora il disco che avremmo dovuto fare trent'anni fa: facevamo una roba a metà strada fra i primi R.E.M. e i Pink Floyd, con qualcosa alla Psychedelic Furs». Nuovo giro nuova corsa: l'ingresso nel circo psychobilly dei Wanted the Shocking Beasts. «Che viaggio! Cuffioni, abiti di scena, ci spostavamo sulle lambrette». Nell'88 il primo arrivederci alla musica: «Avevo trovato lavoro. Mai riuscito a fare due cose insieme».

La fiamma si riaccende nel '92. Al Jazzino assiste a un'esibizione del Franco Montalbano trio: «Un'ispirazione». Il blues chiama, Vittorio Pitzalis risponde: da allora la sua visione si focalizza. «Nel '94, con i Blues Worshippers vincevamo il concorso del Narcao Blues. L'anno dopo, al festival "Ai confini tra Sardegna e jazz", aprivo per Bo Diddley». Una leggenda. Poi gli anni con i Roots'n'blues: «Eravamo fra i pochi a suonare in acustico». Tante serate, in giro per l'Isola. E tanto blues.

GLI ANNI NERI Nuovo stop nel 2006: «Anche stavolta perché avevo trovato un lavoro». Edilizia. L'esperienza finisce dopo due anni e mezzo e lascia in eredità fastidiosi dolori alle braccia: «Epicondilite». Brutta rogna, per chi suona. È l'inizio di un periodo difficile. La malattia colpisce in casa, sono anni di lutti importanti e perdita di motivazioni. La musica non vibrava più. «Il periodo peggiore dal 2010 al 2013». Ogni tanto il telefono squilla: «Ohè, Gringo. Preparati che quando torno a Cagliari facciamo il tuo disco». A chiamare, da Milano, è un ex allievo, uno dei tanti a cui, da pischello, Vittorio ha insegnato quello che sa sulle sei corde, la musica e la vita: si chiama Michelegiuseppe Rovelli e a Milano, si sta perfezionando al Cpm come cantante, chitarrista, musicista a tutto tondo. «Mi ha convinto lui, a fare quel primo disco. Io non volevo. Mi sembrava di non avere più niente da dire».

FACCIA A FACCIA CON ELVIS Dopo "Jimi James", arriva un'esperienza di quelle che non si dimenticano: Pitzalis vince l'edizione del 2018 del festival Deltablues di Rovigo e ha l'onore di rappresentare l'Italia nel 35° International blues challenge. A Memphis, Tennessee. L'America. Quell'America. «Il nuovo disco non esisterebbe senza quel viaggio», confessa. La strada più celebre della storia del blues è protagonista in "Looking for Beale Street", la traccia più rock del disco: un rock veloce ma rilassato, "tirato indietro", alla JJ Cale («Un altro dei miei miti»). Le sacre acque del Mississippi, i sacri studi della gloriosa Sun Records. Ma a sorpresa il vero shock è la visita a Graceland, dimora-museo di Elvis Presley: «Non avevo mai nutrito un interesse particolare per lui. Sì, certo, un grande, mi dicevo, ma i re del rock'n'roll per me sono sempre stati Jerry Lee Lewis e Chuck Berry. Invece visitare casa sua, vedere e ascoltare sue registrazioni dal vivo che non si trovano in giro, la sua camera, le sue camicie, le sue scarpe, la sua patente, le chiavi di casa, la sua pistola, la tv con lo schermo bucato da un proiettile... Siamo rimasti lì per sei ore. In piedi, in silenzio davanti alla sua tomba, che è lì, nel ranch, ho sentito una presenza. So che potrei essere preso per matto ma non posso farci niente: è quello che ho sentito. Quando siamo usciti avevo la sensazione di averlo conosciuto di persona. Al rientro a Cagliari, ha iniziato a venirmi pian piano il testo di una canzone, "Mr Aron", la terza del disco, che è un saluto a lui». In "The time has come" c'è anche un altro omaggio a Elvis: la cover dell'ultraclassico "Love me tender", dove la sorpresa sono «i coretti anni Trenta e il sassofono dei poveri».

DAL COVID AL BOOGIE E poi? E poi c'è anche una canzone per mandare al diavolo il Covid ("Dark evil blues", «scritta lo scorso marzo, prima di ritrovarmi in piena depressione per la situazione allucinante in cui ci siamo ritrovati»), una per ricordare un amico ed ex allievo che non c'è più ("The Pink"), una per dire qualcosa a qualcuno che tempo fa ci ha trattato male ("You treated me badly") e, in chiusura, una "Let's move on to the boogie" che fa l'inchino a un altro grande, John Lee Hooker, e fa venire voglia di infilarsi al più presto, non appena sarà possibile, in un locale imballato di pubblico per sentirgliela suonare dal vivo e ballarla fino alla fine.

"The time has come" non è disponibile in formato digitale ma solo in formato fisico. Per averlo è necessario prenotare all'indirizzo email "vittorio@janestudio.it".

TITOLI DI CODA Messaggio vocale: «Marco? Sono Vittorio. Perdonami, ho dimenticato una cosa importantissima: devo ringraziare un sacco di persone. Michelegiuseppe Rovelli per tutto quello che ha fatto, dall'inizio alla fine, incluso convincermi che sì, nonostante il delirio del Covid dovevamo entrare in studio e fare questo disco. Marti Jane Robertson per il mastering, Checco Adamo per la grafica, Francesca Ardau e Andrea Jako Giacomini per la fotografia. Chi ha suonato: Filippo Caruso, Enzo "Orso" Valsecchi, Daniele Cecilot, Matteo Floris. Il quartetto d'archi: Massimiliano Pani, Martino Piroddi, Maurizio Biancu, Alessio Povolo. Le parti degli arrangiamenti sono state trascritte da Alberto Buffolano».

POST SCRIPTUM Michelegiuseppe Rovelli quest'album l'ha prodotto, registrato, missato, voluto: «Avevamo un conto in sospeso dopo "Jimi James"», sorride. «Dopo il vissuto a Memphis non attendevo altro. Vittorio è stato il mio primo insegnante di chitarra, quando avevo 18 anni. Non dimenticherò mai quello che mi ha trasmesso aldilà del tecnicismo. Lui per me era la prova in terra che sarei potuto diventare, nel tempo, un vero musicista. Quando suonava rimanevo folgorato dal modo e dalla musicalità. Il suo sguardo fermo trasmetteva sicurezza e mi ha fatto subito capire che avevo due strade da percorrere: quella da hobbista o quella dello studente modello. Ho scelto la seconda. Produrlo mi ha permesso di sdebitarmi per quello che mi ha trasmesso». Una grande storia di amicizia. E di musica.
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