“Quando un uomo fa un progetto, Dio ride”. È uno dei mille proverbi yiddish, ma questo potrebbe essere l’invisibile sottotesto o il filo che tesse la trama delle esistenze della famiglia Shtisel, ebrei ortodossi, Haredim (letteralmente i Tremanti davanti alla Torah). Abitano nel quartiere di Geula, a Gerusalemme, e a guidare la tribù c’è l’anziano e ruvido rabbino Shulem (interpretato dal celebre attore israeliano Dov Glickman). “Shtisel” è anche il titolo dell’affascinante, poetica, e perché no, in parte difficile da capire, serie tv israeliana, scritta da Ori Elon e Yehonatan Indusrsky, un successo planetario benedetto dall’approvazione degli ultrapraticanti e dalla curiosità di chi si sente per la prima volta ammesso in un universo chiuso, esclusivo, pieno di vita.

Da fine marzo la piattaforma Netflix manda in onda le nuove puntate di “Shtisel”, arrivate ad alcuni anni di distanza dalle prime (complessivamente 33 episodi), sulla scia del grande successo della miniserie “Unorthodox” (con la bravissima Shira Haas che torna ora come nipote di Shulem). Rigorosamente in ebraico e  yiddish, la lingua portata dal centro Europa e infarcita di parole tedesche e slave, la serie ha il grande merito di raccontare le vicende umane, i crucci e le sfide dei componenti della famiglia del rabbino Shulem, severo preside di un heder (la scuola elementare per soli maschi), e di mantenere al tempo stesso uno sguardo discreto e insieme curioso sulla dimensione sociale e sul conflitto generazionale vissuto in una comunità chiusa, gelosa delle sue tradizioni, quasi impermeabile al mondo che si incontra appena girato l’angolo.

Le serie tv sono ormai il nuovo orizzonte. Lo scorso anno, rivela Der Spiegel, le piattaforme con prodotti streaming hanno avuto un giro d’affari di 50 miliardi di dollari (complice la pandemia). Ma al di là del business, “Shtisel” è davvero intelligentemente originale, perché sa scivolare, quasi in punta di piedi, tra i vicoli di Gerusalemme, allungare lo sguardo dai balconi delle case, e restituire immagini sincere, quotidiane, quasi intime; non a caso uno degli autori, Ori Elon, viene dal mondo ortodosso ed è  certamente in questo tratto così genuino, una delle ragioni del successo. Oltre all’aspetto esteriore, fatto di pastrani neri e camicie candide, kippah sempre in testa, payot (i riccioli ai lati del viso), la lunga barba, le frange tzitzit fuori dai pantaloni, c’è infatti un’umanità fedele ai precetti che deve fare i conti con i conflitti generazionali. Incarna bene questo tormento la figura di Akiva Schtisel, Kive (interpretato da Michael Aloni), il figlio minore di Shulem, giovane artista figurativo. È la sua passione per la pittura a mettere a nudo uno dei problemi dell’ebraismo, contrario alla raffigurazione nell’arte. Kive riporta alla mente il romanzo di Chaim Potok “Il mio nome è Asher Lev”, in cui un giovane dotato di talento per il disegno viene contrastato dalla comunità. Akiva però va oltre non senza dubbi, sfida il padre rabbino, dipinge, ha successo, e quando il gallerista Kaufman gli propone un’intervista televisiva, sostenendo che «voi non avete un buon rapporto con i mezzi di comunicazione di massa», il giovane pittore replica: «Voi chi? Io sono qui da solo». Uno scambio di battute illuminante, che dice del bisogno di andare oltre. Alla fine Akiva sceglie sé stesso e il suo dono, ma resta pur sempre ancorato alla comunità, vero argine al modernismo. Un esempio: cellulari e computer sono ammessi solo kosher, per gli usi essenziali, nulla di più.

Nelle loro case, modeste, con un mobilio essenziale, c’è la radio (vietata nel tempo del lutto) ma non la televisione. Quando la nonna, mamma del rabbino, andrà in una casa di riposo dove invece la tv è ammessa, verrà letteralmente conquistata dalla celebre serie americana Beautiful.

La nonna è anziana. Non così le altre donne della comunità. Indossano la parrucca o una cuffia che nasconde i capelli senza opporsi, calzano scarpe basse e un abbigliamento che non concede nulla alla femminilità, non guidano la macchina e non studiano la Torah, privilegio maschile. Ma è l’assoluta divisione tra i sessi a farci paura, così come ci sgomentano gli incontri organizzati per combinare i matrimoni. Eppure anche qui qualcosa inizia a incrinarsi (sempre Akiva manderà a monte due fidanzamenti), sono piccolissime crepe in un universo che sembra bastare a sé stesso. Così vuole Dio…

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