Piccoli flash, per non dimenticare, ché la memoria ha una funzione molto importante.
Palermo, 1948
Accudiva le pecore nelle campagne del suo paese, Corleone, quando, suo malgrado, vide tre uomini ucciderne un altro. Era il 10 marzo del 1948. Il testimone involontario si chiamava Giuseppe Letizia ed era un servo pastore di appena 12 anni. Gli altri si chiamavano Luciano Leggio, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Il nome della vittima era Placido Rizzotto, sindacalista della Cgil e strenuo difensore dei diritti dei contadini. Il piccolo Giuseppe, sotto shock, venne trovato dal padre che lo portò subito in ospedale. Qui raccontò quanto aveva visto il giorno precedente. Quelle parole rimasero però confinate nella camera dell’ospedale “Dei Bianchi” di Corleone, allora diretto dal medico Michele Navarra, potente boss mafioso e mandante del delitto del sindacalista. Fu lo stesso Navarra a iniettare del veleno a Giuseppe che morì 24 ore dopo Rizzotto.

Catania, 1976
Benedetto Zuccaro, 13 anni, Lorenzo Pace, 14, Riccardo Cristaldi, Giovanni La Greca, entrambi di 15, erano dei ragazzini nati e cresciuti nel popoloso e difficile quartiere di San Cristoforo, a Catania. Giocavano per strada, in compagnia della miseria che i loro genitori non potevano trasformare in qualcosa di meglio. Non avevano alternative. Anche per questo non disdegnavano, di tanto in tanto, il furtarello in un negozio o in una casa. In quell’estate del 1976, nelle vie assolate e nemmeno troppo affollate della città, Benedetto, Lorenzo, Riccardo e Giovanni non trovarono di meglio che “scippare” la mamma di un altro Benedetto, che tutti chiamano Nitto e che di cognome fa Santapaola. Passarono pochi giorni e dei quattro ragazzini si perse ogni traccia: spariti nel nulla. Ci vollero dieci anni per sapere che fine avevano fatto. Meglio, che fine aveva riservato loro il boss catanese in persona. Nitto Santapaola diede ordine di trovarli e di tenerli per qualche giorno – in attesa della sua insindacabile decisione – in un casolare di campagna senza acqua né cibo. L’ordine ai suoi sgherri arrivò nel giro di 48 ore ed era una condanna a morte: <Strangolateli e gettateli in un pozzo>. Detto fatto. Un collaboratore di giustizia, Antonino Calderone (a Pino Arlacchi raccontò il suo percorso di pentimento nel libro “Gli uomini del disonore”), nel 1986 scelse di aprirsi con gli inquirenti, soprattutto con Giovanni Falcone al quale consentì di riempire un fascicolo di centinaia e centinaia di pagine che portarono a decine e decine di arresti, non solo nella famiglia catanese, legatissima a Totò Riina, ma in tutte le cosche siciliane.
Questa storiaccia dei ragazzini aveva segnato Calderone in maniera profonda: <Qualcuno può dirmi, ora, se ci sono giudici in grado di giudicare noi altri? O se non fa una cosa giustissima, lodevolissima, chi mi spara e mi ammazza non appena esco da questa stanza? Come potevo restare ancora dentro quella congrega maledetta? Eppure ci sono rimasto ancora diversi anni. Con questa ferita, con questo macigno dentro di me che c’è ancora e ci sarà sempre. Ecco perché mi vergogno ogni volta che entro in chiesa: perché non ce la faccio ad alzare gli occhi>.

Palermo, 1981
Il mese prima, l’11 maggio, gli avevano ucciso il padre, Salvatore “Totuccio” Inzerillo, fino ad allora intoccabile “padrino” di Cosa nostra, con 208 proiettili di kalashnikov. Il 12 giugno era toccato a lui, Giuseppe Inzerillo, 17 anni da compiere. Aveva commesso un errore: al funerale giurò che avrebbe vendicato il padre e che avrebbe ucciso Totò Riina, la “belva”, il capo dei capi, cioè il mandante dell’omicidio del genitore. Lo aveva detto a voce alta e qualcuno aveva sentito e riportato. Così, quel venerdì di 40 anni fa, a casa Inzerillo si presentò Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, lo spietato killer dei corleonesi. Prelevo Giuseppe e lo portò in un casolare nelle campagne di Palermo. Con un coltello gli recise il braccio destro e, deridendolo, gli chiese: <E adesso come lo ammazzi Totò Riina?>. Quindi gli sparò un colpo di pistola in testa e infilò il corpo in un bidone di acido cloridrico.

Palermo, 1986.
La sera del 7 ottobre 1986 Claudio Domino, un bambino di 11 anni, passeggiava per le strade del quartiere San Lorenzo di Palermo. Era in compagnia di due amichetti quando sentì che un uomo su una moto di grossa cilindrata, forse una Kawasaki, e col casco in testa, lo stava chiamando. Lui si avvicinò e l’altro tirò fuori una pistola e gli sparò un solo colpo in fronte a una distanza di meno di un metro. Quindi, la sgommata e fuga dell’assassino. La mamma del piccolo, Graziella Accetta, aveva una cartoleria e il padre, Antonio Domino, era un operaio della Sip, insieme possedevano anche due imprese di manutenzioni che, tra gli altri, avevano in appalto la pulizia dell’aula bunker dove si svolgeva il maxi processo alla mafia. Proprio da dietro le sbarre di una cella dell’aula, Giovanni Bontate, lesse un comunicato a nome di tutti i detenuti nelle gabbie: <Siamo uomini, abbiamo figli e capiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che una simile terribile barbarie ci possa sfiorare>. Per Bontate, quel “noi”, dopo secoli spesi a negare l’esistenza stessa di Cosa nostra, valse la condanna a morte. Per l’esecuzione di Claudio, invece, un paio di mesi dopo, sparì tal Salvatore Graffagnino, un mafioso che gestiva un traffico di eroina a San Lorenzo. Alcuni decenni più tardi, Salvatore Cancemi e Giovanni Battista Ferrante, due collaboratori di giustizia, racconteranno di essere stati loro, su ordine della commissione, quindi di Totò Riina in persona, a eliminare Graffagnino. Questi venne sequestrato e torturato: <Il ragazzino aveva visto cose che non doveva vedere>, ammise l’uomo prima di essere ucciso.

Palermo, 1996
Il 23 novembre del 1993, alcuni poliziotti della Dia si erano presentati al maneggio di Piana degli Albanesi, hinterland palermitano. Giuseppe Di Matteo, 12 anni, era contento di vederli, pensava che lo avrebbero accompagnato dal padre, collaboratore di giustizia sotto protezione, che non vedeva da tanto tempo. Ma quegli uomini non erano agenti, erano scagnozzi di Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato e fidatissimo di Totò Riina. Il sequestro del ragazzino serviva per far recedere il padre, Santino Di Matteo, dal continuare a parlare con gli inquirenti della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Inizia così, tra un messaggio e l’altro alla famiglia con perentori inviti a Santino affinché stesse zitto, il calvario di Giuseppe, tenuto legato in più rifugi per oltre due anni prima che Giovanni Brusca desse l’ordine di ucciderlo a Enzo Brusca, suo fratello, Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo. Sarà quest’ultimo a raccontare nel processo i dettagli agghiaccianti degli ultimi istanti di vita di Giuseppe Di Matteo, strangolato da tre animali e poi sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Otto giorni dopo avrebbe compiuto 15 anni.
Cinque episodi, tutti significativi, per sottolineare quanto non risponda al vero che la mafia risparmia i bambini. Dalla fine dell’Ottocento a oggi sarebbero più di cento i minori uccisi da Cosa nostra, dalla ‘Ndrangheta, dalla Camorra e dalla Sacra corona unita, le quattro organizzazioni criminali un tempo regionali ma da decenni ormai diventate nazionali. Ecco che una leggenda popolare, un po’ come quella che tentava di distinguere “mafia buona” da “mafia cattiva”, viene smontata con i fatti. Che confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che la mafia è una sola. Ed è “cattiva”, nel senso più ampio del termine. 

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