Il Rostropovič del cemento armato in Italia fu un sardo. Giovanni Antonio Porcheddu nacque povero a Ittiri 161 anni fa (26 giugno 1860) e fu promosso al rango di re delle costruzioni sotto la raffica incessante di successi. Costruì lo stabilimento del Lingotto nel capoluogo piemontese, i giganteschi silos per il grano nel porto di Genova, ricostruì la cupola di San Marco a Venezia e decine di altre opere in Italia e nelle allora colonie, tutto con il sistema rivoluzionario brevettato da François Hennebique, di cui possedeva l’esclusiva per la maggior parte dell’Italia. Morì celebre e ricco a Torino nel 1937, dopo essere stato nominato Cavaliere del lavoro. Un fulgido esempio dei tempi in cui l’ascensore sociale funzionava ancora premiando impegno e genialità.

Biografia

Il sistema archivistico nazionale del ministero della Cultura tiene traccia del celebre ingegnere e dei suoi progetti. Racconta un’infanzia difficile temprata da una volontà d’acciaio: «Dopo la morte prematura dei genitori, Giovanni Antonio si trasferisce ancora giovinetto a Sassari, dove lavora come operaio edile. Con un sussidio frequenta e si diploma alla scuola tecnica superiore (sezione di fisica e matematica). Sempre con una borsa di studio frequenta a Pisa il biennio di ingegneria. Prosegue gli studi a Torino nella regia scuola di applicazione per ingegneri e si laurea in ingegneria civile nel 1890. Nel 1891 si diploma nel corso superiore di elettrotecnica e nel 1892 consegue il diploma di ingegnere industriale nel regio museo industriale di Torino». Fondò uno studio professionale che mieteva incarichi nel segno della novità: «Nel 1894 è rappresentante dei solai incombustibili e nel 1896 è agente generale per l’Alta Italia. Nel 1901, oltre alla sede di Torino, Porcheddu dispone di dipendenze a Milano, Genova e Roma, ha una propria ferriera a Genova per produrre barre di armatura e ha ottenuto autonomia di calcolo e di progetto rispetto alla casa madre. La sede torinese è dotata anche di un laboratorio per le prove di carico. L’archivio dell’impresa annovera più di 2.600 opere, di tutte le tipologie, realizzate prevalentemente in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, ma anche in altre località, tra cui Roma, Messina, Reggio Calabria, Palermo, e fuori dell’Italia nelle colonie. Molte realizzazioni sono famose, come la ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia (1910-1911), i silos granari del porto di Genova (1899-1901), il ponte Risorgimento di Roma (1910-1911), lo stabilimento Fiat Lingotto a Torino (1916-1922)».

Il ponte Risorgimento\u00A0(foto almanacco di Roma)
Il ponte Risorgimento\u00A0(foto almanacco di Roma)
Il ponte Risorgimento (foto almanacco di Roma)

Il capolavoro

La costruzione del ponte Risorgimento proiettò Porcheddu nell’olimpo degli ingegneri. Con una luce di 100 metri, fu a lungo il più ampio al mondo. La storia è stata ricostruita da Daniela Tanzj e Andrea Bentivegna: «All’indomani dello scandalo della Banca Romana, un rinnovato clima culturale di stampo europeo proietta una Roma ancora provinciale nell’epoca moderna. Sono gli anni della giunta Nathan, dell’Esposizione Internazionale, del nuovo piano Regolatore e dell’avveniristico Ponte Risorgimento. (...) Quando la mattina dell’11 maggio 1911 il corteo reale si apprestò ad attraversare per la prima volta il nuovo ponte, il clima festoso, di colpo svanì. Improvvisamente i volti di tutti, compreso quello di Vittorio Emanuele, si fecero più tesi e nervosi, malgrado i sorrisi di circostanza sfoggiati appositamente per la stampa che era lì per immortalare l’evento. Del resto, erano ormai diverse settimane che la costruzione era al centro di illazioni e gli esperti avevano istillato molti dubbi sulla sua effettiva stabilità: come avrebbe potuto tenersi in piedi un arco tanto grande»? Di sicuro Porcheddu sul progetto si giocò la reputazione: «La scelta era caduta sulla proposta arditissima presentata dalla Società G.A. Porcheddu di Torino, anche perché questa si era impegnata, nel malaugurato caso avesse fallito, a “ricostruirlo a spese proprie, provvedendo nel frattempo al collegamento fra le zone espositive con un manufatto provvisorio”», tra viale Mazzini e viale delle Belle Arti. L’ingegnere ittirese era così convintò del successo che assistette all’inaugurazione assieme ai figli più piccoli da una barchetta che navigava proprio sotto il ponte. Da lì potè godersi il meritato successo.

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