Li univa la fede nel comunismo, li divideva quasi tutto il resto: soprattutto, l’opinione su come il comunismo potesse affermarsi. Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer hanno convissuto per decenni nel Pci pur rappresentandone due anime, e due linee politiche, molto diverse: con Napolitano a sostenere, con la cosiddetta ala migliorista, una maggiore apertura verso la socialdemocrazia europea. È stato ricordato da più parti nei giorni della morte dell’ex presidente della Repubblica: e molti hanno anche sottolineato che i dissensi interni, a volte molto severi, sono stati per lungo tempo silenziati dal principio del centralismo democratico, che mostrava il partito sempre monolitico una volta che – magari a prezzo di aspre discussioni – si fosse stabilita una linea.

Compagni e rivali

Che ci fossero vedute diverse era noto, ma negli anni Settanta la dialettica nel Pci non si svolgeva a colpi di interviste contrapposte, o con la velocità odierna dei tweet e dei video su TikTok. Qualche anno fa fa la rivalità tra i due grandi leader è stata ben ricostruita da Ugo Finetti, partendo dai verbali della direzione nazionale, nel volume “Botteghe Oscure: il Pci di Berlinguer e di Napolitano”. Era un rapporto molto particolare, quello che legava tutti i grandi dirigenti comunisti: capaci di scontri epici, ma in fondo consapevoli di essere parte di una stessa famiglia, e non tanto in senso positivo, ma nel senso che i familiari te li devi tenere anche quando non ti piacciono. Così, non deve stupire la celebre foto in cui Berlinguer e Napolitano fanno il bagno insieme all’isola d’Elba, nonostante i loro battibecchi continui negli organismi di partito, ben celati all’opinione pubblica.

L’attrito venne però allo scoperto in maniera clamorosa (anche per le modalità della lite) su un tema specifico sul quale, in realtà, i due la pensavano in gran parte allo stesso modo: la questione morale. È passata alla storia l’intervista del 28 luglio 1981 su Repubblica con cui Berlinguer denunciò a Eugenio Scalfari “la degenerazione dei partiti”: che “hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni”, e poi “gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali”. Un atto d’accusa rivolto alla Democrazia cristiana ma anche ai suoi alleati di governo, a partire dal Psi; mentre i comunisti venivano esclusi da questa deriva, nella visione di Berlinguer, e non solo per il ruolo storico di oppositori, almeno nello scenario nazionale, ma perché “per noi comunisti – disse il segretario a Scalfari – la passione non è finita”. Invece negli altri casi “i partiti sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Un sistema in cui tutto (appalti, finanziamenti di ricerca, cattedre universitarie e così via) poteva essere ottenuto solo in base alla fedeltà a un partito, o una corrente, o a un capocorrente.

Una reazione aspra

La storia ha poi reso evidente a tutti quanta verità fosse contenuta in quella denuncia. Ma Napolitano su questo non aveva un giudizio diverso. Perché, allora, accolse così male l’intervista del segretario sassarese, al punto da criticarla poche settimane dopo addirittura con un articolo sul quotidiano del Pci, L’Unità?

La ragione risiede ancora una volta nella storica differenza di posizioni, tra i due, sulla costruzione di un’alternativa ai governi Dc, ininterrotti dal dopoguerra. I miglioristi erano favorevoli a un dialogo più intenso col Psi, con cui però negli ultimi anni si era invece aperto un solco ampio: scavato dalla competizione a sinistra creata dalla segreteria di Bettino Craxi, e allargato dalle divergenze sulla trattativa con le Brigate rosse all’epoca del sequestro Moro.

Finita la fase del compromesso storico con la Dc, Berlinguer aveva pilotato il Pci verso una nuova svolta a sinistra, che aveva ampliato ulteriormente quel solco con i socialisti. L’intervista sulla questione morale, insistendo sulla presunta “diversità” antropologica dei comunisti rispetto agli altri partiti, rendeva di fatto molto più difficile il dialogo auspicato dai miglioristi, creando il pericolo di un isolamento del partito che avrebbe allontanato ogni ipotesi di alternativa democratica.

Giorgio Napolitano (al centro) tra Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer (archivio Ansa)
Giorgio Napolitano (al centro) tra Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer (archivio Ansa)
Giorgio Napolitano (al centro) tra Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer (archivio Ansa)

Ecco perché, come raccontò nel 2011 Fabrizio D’Esposito nel libro “Re Giorgio”, quando lesse l’intervista Napolitano saltò sulla sedia e chiamò subito Gerardo Chiaromonte, l’altro grande protagonista della sua corrente. E insieme studiarono la risposta, che non arrivò a caldo ma tre settimane dopo, il 21 agosto, con un articolo sull’Unità in occasione dell’anniversario della morte di Palmiro Togliatti. La lezione dello storico leader scomparso 17 anni prima, che di fronte alla nascita del centro-sinistra pensava che il Pci avrebbe dovuto “scendere e muoversi sul terreno riformistico, anziché pretendere di combattere il riformismo con vuote invettive”, veniva riattualizzata da Napolitano come esortazione a creare un soggetto che “non si limita alla critica e alla propaganda, ma propone soluzioni”.

Per cui, scriveva il futuro capo dello Stato, di fronte alle degenerazioni della vita pubblica “non ci chiudiamo in un’orgogliosa riaffermazione della nostra diversità”, anche perché la denuncia dei “comportamenti più torbidi” degli altri partiti “non può oscurare la nostra visione unitaria” e “la ricerca dell’intesa con quei partiti che rappresentano forze sociali interessate al cambiamento”. E con i quali, per altro, il Pci governava in molte regioni e grandi città.

Conseguenze severe

La ribellione pubblica di Napolitano non poteva restare senza risposta: il 10 settembre, nella riunione della direzione, fu accusato (lo raccontò lui stesso a D’Esposito) di aver forzato il pensiero di Togliatti e favorito la descrizione di un attacco interno al segretario nazionale. La conseguenza fu l’allontanamento del leader migliorista dal comitato centrale del partito e dal cruciale ruolo di responsabile dell’organizzazione, per destinarlo a quello (importante ma inferiore) di capogruppo alla Camera.

La morte improvvisa di Berlinguer, nel 1984, pose fine in maniera drammatica al dualismo con Napolitano. Rileggere le loro battaglie col senno di poi sarebbe fuorviante; l’esplosione di Tangentopoli confermò in maniera lampante l’esistenza della questione morale affermata dal segretario del Pci, ma è anche vero che negli anni le cronache hanno smentito l’esistenza di una diversità morale dei comunisti, o forse soprattutto di quelli che ne hanno ereditato il ruolo di alfieri della sinistra. In qualche modo l’alternanza di governo in Italia si è affermata, ma non è servita a spazzare via l’occupazione del potere denunciata da Berlinguer. E ora non c’è più neanche Napolitano a dire la sua.

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