Cinquant’anni fa non si parlava di cambiamenti climatici, di desertificazione e di sconquassi ambientali e idrogeologici. Ma l’estate in Sardegna era molto torrida con temperature che non avevano tanto di meno rispetto a quelle d’oggi: 42 gradi all’ombra a Tertenia, 40 a Oristano, 38 a Cagliari, 35 ad Alghero. I dati ufficiali non citano Nuoro dove quel giorno, sotto il sole cocente, tirava vento di scirocco a una velocità di 50-60 chilometri l’ora. Condizioni ideali per i piromani pronti a scatenare l’inferno. Gli incendi, allora come oggi, scandivano le emergenze estive dell’Isola. Il monte Ortobene si trasformò in un braciere immenso: 800 ettari diventati in poche ore una trappola terribile e un deserto di cenere. Turisti, residenti, ragazzi vennero evacuati come si potè. Ma un allevatore rimase circondato dalle fiamme nel tentativo disperato di mettere in salvo il suo bestiame. Un disastro enorme che sprofondò la città nel terrore più nero. Era il 26 agosto 1971. Una data impressa nella memoria dei nuoresi come fosse quella dell'apocalisse.

Cinquant’anni dopo l’emergenza incendi resta purtroppo ricorrente in tutta l’Isola, come una maledizione perenne, alimentata dalla mano dei piromani di turno, e ora pure dagli eccessi di un clima impazzito.

L’Ortobene, oasi verde a portata di tutti i nuoresi, era anche luogo di lavoro per Francesco Catgiu, 68 anni, otto figli, 32 pecore e 20 maiali.

Alle 13.35 del 26 agosto 1971 scatta l’allarme: ai piedi del Monte il fuoco brucia e allarga il suo fronte in modo temibile. Non è la prima volta in quella stagione che gli incendiari prendono di mira l’Ortobene. Il 18 luglio vanno in cenere gli alberi di latifoglie a Sa’e Corvedda, il 25 luglio uliveti fino a Punta Pala Casteddu. Il 30 luglio c’è un focolaio nella pineta di Valverde, il 2 agosto a Caparedda. A Ferragosto ancora roghi, sotto la vallata di Farcana. A fuoco anche dieci ettari di pineta a Ugolio, periferia di Nuoro. Ma l’attacco degli incendiari non si ferma. Alle 13.35 del 26 agosto inizia il finimondo: i primi focolai a Isporosile e Caparedda. Lecci e pini bruciano senza sosta fino alla sera mentre un altro allarme scatta nel parco dell’ospedale Zonchello, in pieno centro. A Nuoro le sirene sono l’unico suono insistente di quel terribile giorno.

Duecento bambini ospiti della colonia immersa nel verde a Solotti vengono trasferiti in tutta fretta nell’hotel Sacchi. Ma alle 18 le fiamme arrivano a lambire anche l’albergo dove volteggiano tre elicotteri del Caip di Abbasanta. Allora sull’Ortobene non c’era un velivolo del presidio forestale, come per fortuna esiste oggi.

I pullman dell’Arst, in servizio verso la Baronia, vengono requisiti e utilizzati per portare via la gente bloccata dal fumo e dalle fiamme. Fatti scendere i passeggeri autisti-eroi si arrampicano lungo sei chilometri di tornanti scortati dalle autobotti con gli idranti per bagnare i bus ed evitare che i tizzoni ancora ardenti diventino trappole infernali. Non era per niente facile farsi largo tra cenere e fiamme. Alle 19 il fuoco arriva perfino ai piedi della grande statua in bronzo del Redentore. Solo dopo sei ore di angoscia e guerra il rogo è sotto controllo. Ma, nel frattempo, tra il fumo e la cenere c’è anche aria di morte. Francesco Catgiu resta intrappolato tra gli arbusti di Sa’Mesina, vicino all’attuale base forestale di Farcana. Per i suoi funerali a Nuoro è lutto cittadino, viene sospesa la gara poetica prevista per la festa del Redentore che quell’anno sarà piena di tristezza.

Quattordici persone restano ustionate e fanno ricorso alle cure dei medici dell’ospedale. I danni sono enormi, stimati nell’ordine di mille milioni di lire. Tanti gli animali uccisi: i dati ufficiali parlano di un centinaio di capre, 150 maiali, una decina di vitelli solo nelle campagne di Farcana e Sa’e sos frores. Naturalmente sono stati molti di più in tutto il Monte. E poi vanno messi in conto cinghiali, volpi, lepri, martore, gatti selvatici, istrici, donnole, in numero imprecisato.

La prima pagina dell'Unione Sarda del 26 agosto 1971
La prima pagina dell'Unione Sarda del 26 agosto 1971
La prima pagina dell'Unione Sarda del 26 agosto 1971

A battaglia finita emerge la verità: l’attacco degli incendiari è partito da cinque inneschi in altrettanti siti dell’Ortobene. Il sindaco del tempo, Peppino Corrias, dà voce alla disperazione dei nuoresi: «Il nostro più grande patrimonio è andato distrutto, con esso muore una parte della città. Ma è certo che faremo di tutto perché il monte ritorni come prima. Chiederemo con la forza che ci impone di andare avanti l’aiuto di tutti, della Regione e dello Stato per un’opera organica di ricostituzione, di protezione e di conservazione del monte Ortobene».

Parole non vane se oggi il monte Ortobene è un gioiello verde, pieno di boschi e aree ambientali di pregio. «L’impegno della Forestale è stato fortissimo. Il lavoro ha consentito di riformare il bosco», riconosce Salvatore Mele, direttore generale di Forestas. «C’è una naturalità del bosco molto importante, è stata ricostituita la macchia alta. Grazie a tecniche forestali-scientifiche come la conversione a fustaia del ceduo oggi abbiamo leccete di pregio che sono habitat, per esempio, del falco pellegrino. Il lavoro fatto è andato a beneficio della vegetazione e della fauna».

Il parco del monte Ortobene
Il parco del monte Ortobene
Il parco del monte Ortobene

Il disastro del 1971 resta comunque nella memoria di Nuoro: 25 anni fa il ricordo è stato affidato a una pubblicazione curata dal giornalista Michele Tatti dal titolo “Unu Monte de chisina”. Per i 50 anni in cima all’Ortobene il 26 agosto è prevista una serata con l’associazione culturale Turulia e il coro di Nuoro: stesso titolo “Unu Monte de chisina”, ovvero “la montagna di cenere” perché a distanza di tanto tempo quella ferita resta un monito forte e sempre attuale.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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