L’associazionismo e la politica come mantra. Franco Marras ha appena compiuto sessant’anni e a marzo è stato confermato a capo delle Acli in Sardegna, che guida dall’ottobre del 2017, dopo essere subentrato a Fabio Meloni, il primo sardo eletto nella presidenza nazionale. Nella vita di tutti i giorni lavora all’Ersu di Cagliari e si occupa dei servizi mensa. “Per venticinque anni mi sono occupato di servizi formativi”, dice Marras, “e negli ultimi tredici ho operato nei servizi nel sistema Regione prima nel settore sanitario poi, con responsabilità politiche e gestionali, nei Trasporti”. L’impegno sociale e politico per lui sono un fatto quasi genetico: “Vengo da una famiglia che ha sempre avuto una particolare sensibilità a non farsi i fatti propri, come dice mia madre, e a non girarsi dall’altra parte davanti al bisogno e al disagio. Questo mi ha portato a vivere esperienze sia nel sociale, dentro le Acli, che nella politica, prima nei Cristiano Sociali e da lì ho collaborato alla nascita del Partito Democratico”. Ha un figlio di 25 anni e l’ultimo libro che ha letto è un romanzo di Lorenzo Scano, “Via Libera”, nel quale si rappresenta il percorso di tre adolescenti cagliaritani. “E’ uno spaccato molto realistico di quanto accade ai nostri ragazzi che troppo spesso mancano dei riferimenti che possano accompagnarli in un momento così importante della loro crescita e formazione”.

Presidente Marras, da quanto tempo le Acli sono nella sua vita?

“Potrei dire da sempre. Mio padre ne è stato dirigente, in realtà il mio impegno nelle Acli nasce all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso come una prosecuzione dell’attività nel movimento studentesco. Ricordo che la prima iniziativa alla quale ho partecipato è stata una grande manifestazione per la Pace alla quale aderirono più di diecimila persone. Erano gli anni della contrapposizione militare tra Usa e Urss e quella mobilitazione cercava di contrastare l’installazione di basi missilistiche nel nostro territorio”.

Da chi è stato accompagnato in questo percorso?

“Non ho avuto solo un riferimento in quella fase di “formazione”. Cercavo di tenere il più distante possibile mio padre, che devo dire si è dimostrato molto rispettoso nel lasciarmi vivere quel tempo senza interferenze. Certamente mi hanno molto aiutato i ragazzi che ho trovato all’interno di Gioventù Aclista, a iniziare dal segretario di allora. Nel percorso di crescita il riferimento più importante è stato senza dubbio Giovanni Bianchi, presidente nazionale delle Acli, che per la mia generazione è ancora la rappresentazione e l’esempio principale”.

Chi la conosce la definisce un uomo di azione e di relazione. Ci si ritrova?

“Sì, abbastanza. Ho sempre privilegiato la concretezza e l’operatività. E certamente ho sempre avuto ben presente il senso del mio limite che mi ha reso consapevole della necessità di creare reti e rapporti: nessuno basta a se stesso e nessuno fa niente da solo”.

Qual è il senso dell’essere aclisti oggi?

“Lo stesso senso e la stessa ragione per la quale le Acli sono nate. Nel 1946 la ragione per la quale sono state immaginate è stata la condizione per la quale occorreva rendere disponibili ai lavoratori luoghi di tutela e di accompagnamento a un percorso, non solo professionale, ma pure di crescita e di miglioramento della loro condizione. Non per caso dalle Acli si sono poste le basi per la nascita della Cisl. Erano anni molto complicati, le conseguenze della Seconda guerra mondiale erano una triste realtà: le Acli diventavano lo strumento di protezione e tutela sociale. Oggi, con il tempo che stiamo vivendo, con l’incertezza di quanto ci aspetta nel prossimo futuro, le Acli continuano ad essere un luogo nel quale si può trovare supporto e orientamento per la costruzione di un percorso di vita”.
Nella Prima Repubblica il faro politico dell’associazione era la Dc. Oggi c’è un riferimento così chiaro, a prescindere dall’appartenenza dei singoli?

“Certamente questo è stato vero sino alla fine degli Anni Sessanta. Poi, senza dilungarci nel dettaglio della nostra storia, la relazione con la Democrazia Cristiana è stato caratterizzato da alti e bassi. Oggi non c’è, io dico per fortuna, un rapporto con la politica e con i partiti che possa far intendere rapporti privilegiati con chicchessia. Certo, è più frequente che ci si relazioni con quelle parti politiche che dimostrano attenzione verso chi fa più fatica, con coloro che hanno una netta e non ambigua aderenza ai principi fondamentale della nostra Repubblica, a partire dalla difesa dei valori democratici contenuti nella Costituzione”.

Il politico sardo che - nella storia - ha incarnato i valori delle Acli?

“Ce ne sono stati diversi e su differenti livelli anche istituzionali hanno trasferito il loro essere aclisti. Per citarne alcuni: Lorenzo Isgrò, oristanese, parlamentare per molti anni relatore dei più importanti provvedimenti economici negli Anni Sessanta e Settanta, Efisio Corrias che prima di essere presidente della Regione è stato presidente delle Acli di Cagliari e presidente regionale, Giovanni Boi, anche lui parlamentare, Bista Zoppi, indimenticato presidente delle Acli nuoresi, Cicito Canu a Sassari, per arrivare a tempi molto recenti Tonino Tidu, consigliere regionale per tre mandati, Eliseo Secci consigliere regionale e assessore della Programmazione, Silvio Lai consigliere regionale e senatore della Repubblica. Ognuno di questi, insieme a tanti altri ha saputo trasferire nelle istituzioni l’insegnamento e la metodologia che ha appreso nella scuola delle Acli, che ora vive anche nel lavoro di Valter Piscedda, attuale consigliere regionale. Per stare agli aclisti fuori dalle Acli, certamente Nino Carrus e, per certi versi, Federico Palomba”.

Il lavoro, nell’Isola che lentamente si lascia alle spalle il periodo nero della pandemia, è un tema caldo anche nell’agenda delle Acli. Che cosa va fatto nell’immediato e a medio termine?
“Sino al 2019 il settore privato assumeva 100 mila persone all’anno in Sardegna, nel 2020 ne ha assunto solo 66 mila. Tra questo meno del 30 per cento hanno un titolo di studio o qualifica professionale. Sono raddoppiate le persone che sono al di sotto della soglia di povertà in Sardegna. Mi sembra che i dati dicano tutto. Non penso che il problema si risolva solo concedendo risorse alle aziende per tenerle in piedi. Occorre aumentare le competenze dei lavoratori, non solo da adulti, ma da quando sono giovani, visto che la scuola non sempre riesce a tenerli al suo interno. A questo si collega il fatto che la povertà non è solo un tema economico. Le nostre ricerche lo dimostrano costantemente: le persone vanno accompagnate con progetti che vedano integrati servizi pubblici erogati dall’Aspal e terzo settore, perché l’inserimento sociale è altro dalla sola occasione lavorativa, che si perde se non si è sostenuti. Per queste ragioni abbiamo proposto che venisse creato l’assessorato del Wefare, mettendo insieme le competenze dell’assessorato del Lavoro e della direzione delle Politiche Sociali attualmente in capo dell’assessorato della Sanità”.

C’è una ricetta per la crescita nel sociale e, in questa direzione, quali sono i nuovi spazi di operatività del cosiddetto terzo settore?
“Il nuovo codice del terzo settore, scritto da un aclista, il viceministro Luigi Bobba, indica la strada con chiarezza ovvero la co-progettazione degli interventi tra sistema pubblico e terzo settore. Non si può affrontare il sociale con i bandi da lavori pubblici né pensare al bisogno sociale solo con le erogazioni in denaro o come assistenza ottocentesca. Occorre individuare un problema, occorre che il pubblico abbia il coraggio di scegliere la strada della co-progettazione con il terzo settore e sviluppare la soluzione insieme. Tutto il resto genera disuguaglianze, servizi di scarsa professionalità, dispersione di risorse”.

Le altre battaglie che bisognerebbe combattere con ardimento per l’Isola?
“Ci sono nuovi diritti che vanno resi esigibili. Il diritto alla mobilità, quello di non essere lasciati soli da ragazzi e da anziani, quello di vivere dove si vuole e non dove si è costretti dall’assenza di servizi, quello di essere curati e non di essere in lista d’attesa, quello di mettere su famiglia, quello di vivere in una società accogliente e integrata”.

Lei è stato anche un dirigente regionale del Pd. Trova che la struttura e le proposte del partito siano ancora in linea con le istanze dei ceti più deboli della popolazione?
“Dall’ultimo congresso non ho più ruoli nel Pd, per scelta ho ritenuto che fosse necessario lasciare ad altri la responsabilità di proseguire il lavoro. Non sono stato seguito da troppi in questa scelta e troppi sono ancora lì. Lo dico con amarezza: il Pd si è fatto carico di non far deragliare il Paese, come in Sardegna si prende il compito di risanare i bilanci pubblici. Ma, poi, per risanare la spesa pubblica, accettiamo che a pagare siano i più deboli, quelli dei contratti di pulizia a 5 euro o della vigilanza per mille euro, i ragazzi delle periferie urbane senza scuola e formazione, gli anziani senza cure e senza prevenzione, le donne sfruttate o mal pagate. E così lasciamo intere parti della popolazione nelle mani del populista d’accatto del momento. Per me, per noi delle Acli che ci riflettiamo, questa dovrebbe essere la frontiera: non solo del Pd ma di un’idea o di una coalizione progressista”.
Allora, dica qualcosa di sinistra.
“Mi vengono in mente solo citazioni di Papa Francesco. La prima: occorre cambiare stili di vita perché è l’egoismo che provoca la povertà. Mi sembra un bel manifesto di sinistra”.

E di aclista.
“Anche qui, mi pare che Papa Francesco sia il faro cui le Acli devono guardare. Ce ne sono due che ci devono guidare: “Ogni cristiano nel posto di lavoro può dare testimonianza, con le parole e prima ancora con una vita onesta”. E, l’altra, sulla famiglia: “Le tre parole chiave: permesso, scusa, grazie. Se in una famiglia si dicono queste tre parole la famiglia va avanti”. Ecco, Papa Francesco è netto quanto semplice: così dobbiamo essere noi delle Acli, come cristiani e lavoratori. E, un’altra ancora, sulla politica: “La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose, perché cerca il bene comune”.

Qual è, in questo senso, il futuro dell’associazionismo e del solidarismo?
“Vale qui una riflessione che in Europa è acquisita: il futuro del volontariato e del terzo settore non è nel volontarismo, ma nella capacità di muovere risorse etiche e professionali nella direzione del bene pubblico, insieme alle istituzioni. Non per colmare buchi ma nel guidarle a non generare disuguaglianze”.

Tra le sue passioni c’è il calcio. Lei è da sempre supporter del Cagliari: Mazzarri darà ai rossoblù la scossa che serve?

“Me lo auguro, la decisione di esonerare Semplici è sembrata un po’ affrettata, forse non c’era la convinzione che avesse i requisiti per guidare la squadra e allora sarebbe stato più giusto non riconfermarlo dall’inizio. La sensazione è che anche nel calcio si faccia fatica ad intravvedere un futuro piuttosto che investire e programmare. Sono comunque fiducioso, anche se la mia è più la fiducia del tifoso”.

Concludendo, tornando ad argomenti meno frivoli: di che scossa ha bisogno l’Isola?

“La Sardegna ha bisogno di politica fatta in Sardegna, autorevole, seria e competente evitando le avventure che la distruggono: sia quelle straccione populiste che quelle estetiche dei tecnici. A dogniunu su suu, a ciscuno il suo”.

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