Suzon compie ormai 140 anni, e come ogni sera è pronta a offrire, ancora una volta, una Bass pale ale, la storica birra col triangolino rosso. La barista del Folies Bergère di rue Richer 32 a Parigi, nonostante l’età, è sorprendentemente attuale. Appare inossidabile, lunga frangetta bionda, occhi azzurri fissi nel vuoto e assorti nel nulla, mentre traspare la stanchezza per un lavoro che forse non ama ma le dà da vivere. Eduard Manet la conosceva bene, Suzon. Scelse lei, immersa nella mondanità borghese della Belle époque parigina di fine Ottocento, come protagonista (o coprotagonista) del suo ultimo quadro, Un bar aux Folies Bergère, la tela che la critica considera il testamento spirituale dell’artista, il manifesto estetico della sua ricerca pittorica.

L’OPERA Manet dipinse questo capolavoro a olio tra il 1881 e l’anno successivo. È ormai alla fine della sua esistenza, iniziata nel 1832 (nacque il 23 gennaio) e conclusa cinquantuno anni dopo, il 30 aprile 1883. Un bar aux Folies Bergère, oggi esposto al Courtauld Gallery di Londra, conserva la cifra stilistica che ha caratterizzato Manet nel corso della sua vita: una predilezione per squarci di vissuto contemporaneo, l’uso del nero (più o meno) abolito dai suoi amici impressionisti e le nature morte. L’opera non passò inosservata al Salon parigino del 1882. Manet, in quella esposizione, ancora una volta spiazzò la critica e i borghesi benpensanti dell’epoca proprio come fece circa vent’anni prima (era il 1863) con la tela a olio, Olympia (oggi al Museo d’Orsay) e ancora di più, con la grande tela, oltre 4 metri quadrati, considerata “indecente” (per restituire le parole del Salon), Le déjeuner sur l’herbe, Museo d’Orsay. Sono i capolavori indiscussi del maestro parigino (insieme a Il pifferaio, del 1866) che ha lasciato oltre 400 dipinti.

LA CAMERIERA Suzon è al centro dello spazio. E verrebbe da chiedersi quanto voglia ha di stare lì, in quel preciso giorno, tra quella precisa gente. La risposta è semplice: nessuna. Chiusa nel suo corpetto nero ornato di pizzo e ampiamente scollato, arricchito da un mazzo di fiori tra i seni, guarda lontano, in un altrove indefinito ma fuori da quel baccano. Lei è una inserviente a differenza delle altre donne che popolano il locale e si divertono tra acrobati, chiacchiere, avance e champagne. Ma Suzon, più di tutta quella umanità varia, è padrona del suo spazio, con le mani ben puntellate al marmo bianco, in attesa del prossimo cliente da servire. Ha l’aria di una ragazza bonacciona con alle spalle tutto il suo habitat che la rende lontana da quella vita, diversa, stanca e malinconica. Manet con un gioco di incroci prospettici creati dallo specchio che è alle spalle di Suzon, si concede a una lettura introspettiva della sua opera: niente è come appare. Invita a scavare nella psicologia di quello sguardo alienato che sembra lasciarsi alle spalle il mondo festante del sabato notte. Neppure quell’avventore che si avvicina al banco, riflesso a destra in una prospettiva azzardata e impossibile, distoglie Suzon da una velata rassegnazione esistenziale.

NEL CABARET DELLA VITA Manet delinea gli oggetti in cerca di un significato nascosto: forse, il senso del vivere. Più dettagli raccoglie in quello spazio e più fissa il momento, seleziona quell’attimo tra lo scorrere continuo dei fatti. Lo immortala, appunto. Spazio e tempo raccontati attraverso gli oggetti. L’immagine reale (Suzon, il banco in marmo, i liquori, le bottiglie, le birre, le nature morte) è confusa con quella riflessa della grande sala piena di gente, a sinistra le gambe del trapezista che incanta le signorotte del pubblico, poi i grandi lampadari. Nella finzione prospettica della tela c’è una vita che scorre, ma è quel fermo-immagine a rendere l’attimo eterno e inattaccabile. I suoni, le luci, il vociare indefinito e l’odore dei sigari, l’alcol e i binocoli sono vivi e si ripresentano con la stessa vitalità davanti a noi, esistenze di altre epoche, che assistiamo a quello spettacolo. Manet ci permette di calpestare quel pavimento, di toccare le poltroncine in velluto del Folies e di avvicinarci a Suzon per chiederle, perché no, la consueta Bass pale ale 66, sì. Quella birra inglese e non altre. Non mette in evidenza un particolare e riconoscibile champagne. No, la birra. Quella con il triangolo rosso, molto popolare a Parigi e che Manet ha voluto fosse a portata di mano di Suzon, tra le bottiglie sul marmo bianco.

Il Folies Bergère a Parigi, fonte Ansa
Il Folies Bergère a Parigi, fonte Ansa
Il Folies Bergère a Parigi, fonte Ansa

MUSIC HALL Cuore pulsante della Belle époque parigina, tra spettacoli di cabaret, bollicine, numeri di illusionismo e burlesque, il Folies Bergère era il locale alla moda frequentato da borghesi, artisti, intellettuali e molto amato (e dipinto) soprattutto da Toulouse Lautrec, praticamente ospite fisso di quelle sale. Manet dedicò a quel tempio sacro della mondanità il suo ultimo lavoro, appunto, prima di morie. Meta ancora oggi di milioni di turisti, perfettamente in attività, il Folies Bergère venne costruito dall’architetto Plumeret che si ispirò all’Alhambra Music Hall di Londra. Nato come Folies Trevise, dal nome della strada vicina, fu inaugurato il 2 maggio 1869, ma cambiò nome alla fine del secolo diventando quel locale famosissimo che ha segnato la storia dello spettacolo e in parte della Francia del Secondo Impero. Qui si sono esibiti una miriade di artisti e personaggi famosi: Maurice Chevalier, Carolina Otero, Jean Gabin, persino Charlie Chaplin, Fernandel e naturalmente la stella indiscussa del Folies, la cantate ballerina Joséphine Baker.

REALTÀ AUMENTATA Osservare oggi l’imponente facciata art déco con le raffigurazioni e le scritte liberty, varcare gli ampi ingressi del Folies, significa trovarsi immersi nella Parigi di un’altra epoca tra scalinate avvolte in una moquette turchese, ornamenti floreali e rifiniture in oro illuminate dai grandi lampadari art nouveau. Lusso e fasto, sontuosità. Una “realtà aumentata” dove anche se solo per pochi secondi, magia dell’arte, puoi incrociare lo sguardo con gli occhi azzurri di Suzon, mentre lei, stanca, poggia le mani da giovane campagnola sul marmo bianco popolato di bottiglie e nature morte. E aspetta che tu le ordini la consueta Bass dal triangolo rosso.

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