È una giornata di sole e nuvole con l’aria già tiepida. Alle porte c’è la Candelora “che l’inverno si porta via”. Il Sant’Elia ribolle come sempre, figuriamoci quando c’è il Milan dell’eterno Rivera e del grande ex Ricky Albertosi. Il Cagliari non se la passa bene, gli anni della gloria più limpida sono alle spalle: dei tempi della cavalcata scudetto è rimasto Nenè, che proprio durante quella stagione darà l’addio al calcio. C’è anche Mario Brugnera, appena rientrato da un’impalpabile esperienza a Bologna, ma soprattutto la squadra rossoblù può ancora contare su Riva, il bomber infinito diventato leggenda. Cagliari e tutta la Sardegna si aggrappano ancora una volta a lui per provare a restare nel campionato dei grandi. È una stagione disgraziata ma c’è ancora mezzo torneo da giocare. Due giovanotti di belle speranze come Virdis e Piras possono fare la loro parte, la possibilità di mantenere il posto in Serie A non è ancora compromessa.

L’ennesimo infortunio diventa l’ultimo 

Riva ha poco più di trentun anni, deve fare i conti con gli strascichi dei tanti infortuni subiti nel corso della carriera. Non è più paragonabile al Rombo di tuono capace di devastare le difese avversarie, ma è sempre l’uomo in più in grado di cambiare la partita in qualunque momento. Ha segnato sei gol, c’è ancora il tempo per guidare i rossoblù verso la salvezza.

Quel primo febbraio del 1976 il Cagliari sta lottando per strappare almeno un punto al Milan terzo in classifica. All’inizio della ripresa i rossoneri passano in vantaggio con Calloni, “lo sciagurato Egidio” capace di sbagliare i gol anche nelle occasioni più facili (in quella partita in realtà ne farà due). Pochi minuti dopo, è l’ottavo di gioco, Riva lotta per conquistare la palla con il centrale difensivo Aldo Bet, stopper, si diceva allora. Una breve corsa affiancata appena fuori dall’area, verso l’angolo sotto la Curva nord e i Distinti del Sant’Elia. Le gambe dei due giocatori si toccano, non sembra un contrasto violento, ma Riva crolla a terra. La smorfia di dolore, la mano sulla coscia destra, il braccio che si alza per invocare l’intervento del medico.

Il silenzio del Sant’Elia

Lo stadio ammutolisce, i quasi quarantamila spettatori trattengono il fiato. Sanno bene che il fisico del loro eroe è già minato dalle troppe ferite del passato. L’uscita dal campo di Riva, accompagnato “a braccia” da due assistenti fa sperare che l’incidente non sia paragonabile ai due gravissimi infortuni precedenti. Ma è solo un impressione. Per la terza volta l’attaccante di Leggiuno si trova a dover scalare un muro. C’è riuscito nel 1967 (rottura del perone sinistro durante un’amichevole della Nazionale col Portogallo), c’è riuscito anche nel 1970 (dopo la terrificante entrata dell’austriaco Hof in un’altra sfida azzurra: frattura del perone destro). Questa volta il problema è il distacco del tendine dell’adduttore nella coscia destra. A fine partita (il Cagliari perderà 3 a 1) Riva è ancora negli spogliatoi su un lettino. Davanti ai giornalisti cerca di tranquillizzare i tifosi: “Tra trenta, quaranta giorni provo a tornare in campo. Magari riesco ancora a dire la mia”. E aggiunge un tassello alla sua storia leggendaria: “Non vorrei che si facesse un dramma davanti a questo incidente. Una cosa normale per un calciatore”. 

Finisce la storia in campo, non la leggenda

Ma quella sarà l’ultima uscita dal campo dell’uomo capace di trascinare il Cagliari sulla vetta più alta del calcio italiano e di restare l’inarrivabile capocannoniere azzurro con 35 gol in appena 42 partite. Senza il loro comandante i rossoblù finiranno quel campionato in coda alla classifica, per la prima retrocessione di sempre in Serie B. Riva fa di tutto per tornare in gioco, per ben due anni resta tra i tesserati del Cagliari, si continua a parlare di uno suo rientro. La sua immagine è ancora stampata nelle figurine degli album Panini. Ma tutti i tentativi falliranno, la gamba non potrà più essere quella di prima, il ritorno non ci sarà mai. Il primo febbraio 1976 segnerà l’addio al calcio del più grande attaccante italiano, che ha scelto di legarsi a vita ai colori rossoblù. Finisce il tempo del campo, non la storia dell’uomo diventato mito, dell’eroe silenzioso simbolo di un’Isola.  

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