Noi umani siamo gente strana. Un personaggio in una serie tv muore d’infarto mentre pedala su una cyclette, e la casa produttrice dell’attrezzo crolla in Borsa come se non fosse tutta una finzione scenica. Tanto da dover poi realizzare uno spot riparatore e avviare delle cause legali. Chi ama Sex and the City sa già di cosa si sta parlando: l’assurda vicenda è nata dopo la prima puntata della nuova stagione, quella in cui gli appassionati hanno ritrovato Carrie Bradshaw e le sue amiche che raccontarono con tanta leggiadria la New York di inizio millennio. Hanno ritrovato anche Mister Big, l’amore tormentato di Carrie, ma non per molto: è lui che, nella prima ora della nuova serie (che ha un titolo diverso dal passato: “And just like that”), cede a un attacco cardiaco durante un allenamento.

Nella vita reale, com’è chiaro per ogni spettatore dotato di senno, l’attore Chris Noth sta benissimo (fino a un certo punto: proprio nei giorni della sua morte sul set gli sono arrivate due accuse di stupro, ma questa è un’altra storia). Però, appunto, siamo gente strana, crediamo alle bufale e non alla scienza, figuriamoci se qualcuno non prende sul serio un infarto messo lì solo per esigenze di copione.

Alla prima puntata

La morte coglie Mr. Big su una cyclette Peloton, marchio Usa del fitness di lusso. All’indomani della puntata, andata in onda a dicembre, a Wall Street il titolo dell’azienda perde l’11,3%. Il giorno dopo, un altro 5% in meno. Si scatena il finimondo. Peloton precisa che aveva approvato l’uso della cyclette nelle riprese, ma ignorando il contenuto di quella scena; e in una surreale confusione tra realtà e finzione, realizza uno spot per spiegare ai consumatori che Mr. Big (cioè, Chris Noth) è vivo.

Poi i portavoce dell’azienda si mettono a discutere – del tutto seriamente – del cattivo stile di vita di Mr. Big (in questo caso il personaggio, non l’attore), che nelle serie precedenti esagerava con i sigari e l’alcol. Interviene addirittura il comitato scientifico dell’azienda, con la cardiologa Suzanne Steinbaum: “Mr. Big ha fatto scelte di vita pericolose. E non conosciamo la sua storia familiare, che è rilevante”. E va bene la sospensione dell’incredulità, ma qui si esagera. Ci si interroga addirittura sulle abitudini dei genitori, mai esistiti, di un personaggio fittizio.

Cynthia Nixon,\u00A0Sarah Jessica Parker e Kristin Davis (Epa/Archivio US)
Cynthia Nixon,\u00A0Sarah Jessica Parker e Kristin Davis (Epa/Archivio US)
Cynthia Nixon, Sarah Jessica Parker e Kristin Davis (Epa/Archivio US)

Ma del resto la sospensione dell’incredulità, il confine labile tra ciò che è vero e ciò che è narrazione, è alla base di tutto il cosiddetto product placement, ossia la presenza a scopo pubblicitario di oggetti di consumo nei film e nelle serie tv. Gli esempi sono migliaia. Hanno sempre sfruttato molto la pubblicità indiretta le auto, gli alcolici, le grandi catene come Walmart o, in tempi più recenti, Ikea. O le ditte di consegne, FedEx e Ups su tutte; ora spesso è citata Amazon. E da sempre Coca Cola e Pepsi si sfidano (anche) su quel terreno: Igor Jan Occelli (“Pubblicità e cinema, connessi ed annessi”, 2008) ricorda che in “Ed Tv” di Ron Howard (1999) si arriva a una sorta di advertising comparativo, con la domanda al protagonista (“preferisci Coca o Pepsi?”) e la risposta secca: “Pepsi”.

Poi dipende dalle epoche: negli anni ’90 quasi ogni computer in scena era della Apple, e i personaggi si chiamavano tra loro impugnando un Motorola o un Blackberry. All’inizio degli anni 2000 sono state terribilmente invadenti le compagnie telefoniche: in alcune commedie italiane si utilizzò lo stratagemma di simulare che un’intera scena fosse stata registrata su un cellulare, in modo da poterla mostrare tenendo bene in vista il logo dello sponsor.

Se non va come previsto

Di solito tutto questo fa bene ai vari marchi; il caso Peloton è invece un esempio di product placement finito maluccio. Eppure, chi studia il fenomeno spiega che anche un placement negativo, in cui il prodotto non faccia per così dire un’ottima figura, può in realtà incrementare le vendite del marchio. Secondo Ignacio Redondo dell’Universidad Autónoma de Madrid (“The behavioral effects of negative product placement in movies”, 2012), il prodotto è danneggiato se appare con una negatività intrinseca, ossia relativa alle sue qualità. Per esempio nel film del 1990 “Pacific Heights” l’insetticida Orkin viene usato per liberare una casa da un’invasione di scarafaggi, ma non ottiene lo scopo: la Orkin, che aveva pagato 20mila dollari per essere presente nella pellicola, ne fu danneggiata e fece causa alla 20th Century Fox.

Se invece un marchio appare in una luce negativa ma per motivi ad esso estrinseci (ragioni ideologiche, stereotipi sociali), di solito non subisce cali di vendite e, anzi, potrebbe persino incrementarle: perché comunque attira attenzione su di sé. È il caso della Coca Cola in “The Gods must be crazy” del 1980, quando una lattina viene ritrovata da una tribù africana isolata dal mondo e, simboleggiando l’arrivo della civiltà moderna, porta con sé una serie di guai.

Lattine di Coca Cola e Pepsi in un supermercato (foto Lennihan Ap/Archivio US)
Lattine di Coca Cola e Pepsi in un supermercato (foto Lennihan Ap/Archivio US)
Lattine di Coca Cola e Pepsi in un supermercato (foto Lennihan Ap/Archivio US)

Sempre la Coca Cola ottiene lo stesso effetto (conseguenze positive da un placement negativo), secondo Redondo, nel film di Wolfgang Becker “Goodbye Lenin”, del 2003. Nella stessa pellicola, invece, Burger King ha a sua volta un placement negativo, ma in questo caso con conseguenze negative. Lo studioso spagnolo lo afferma sulla scorta di un esperimento dell’Università di Tarapacá in Cile, che ha mostrato il film a un migliaio di persone che non lo conoscevano, consentendo al termine di scegliere un omaggio tra varie alternative: lattine di Coca o di Pepsi, panini di Burger King o di McDonald’s.

Le loro opzioni hanno favorito la Coca Cola e penalizzato Burger King. Questo perché, argomenta Redondo, la Coca ha nel film un ruolo negativo ma estrinseco, come simbolo dell’arrivo del consumismo nella Berlino Est liberata dal Muro. Invece di Burger King viene sottolineata la cattiva qualità del cibo, causa di obesità, e la dimensione lavorativa alienante per i dipendenti della catena: fattori intrinseci rispetto al marchio.

Errori che hanno fatto la storia

Per le aziende non esiste comunque una formula sicura per capire quando sia conveniente sponsorizzare un film o una serie tv, e quando no: il caso Peloton sta lì a dimostrarlo. Errori, in questo campo, se ne fanno tanti: e possono consistere in una presenza controproducente, ma anche in un’assenza. Come gli attori o attrici che rifiutano ruoli in opere che poi hanno grande successo, così certi marchi non hanno il coraggio di investire in un film e poi se ne pentono. Un caso storico è stato ricordato da Eleonora Borando su Leadership & Management Magazine (“Product Placement: dallo schermo all’universo simbolico del consumatore”, 2021). La produzione di “E.T.”, l’enorme successo di Steven Spielberg del 1982, voleva che in una delle scene iniziali l’alieno venisse attirato dai famosi cioccolatini M&M’s. Ma l’azienda rifiutò, temendo di essere associata a una creatura che avrebbe potuto spaventare i bambini. Furono utilizzate perciò le caramelle Reese’s Pieces, che così, grazie alla grande fortuna del piccolo extraterrestre, videro crescere del 60% la loro fetta di mercato, fin lì striminzita.

Da allora, i capi del marketing dei brand americani ci pensano due volte, prima di dire no a una sponsorizzazione. Ma forse ora, dopo il clamore del caso Peloton-Mr. Big, ci penseranno tre volte prima di accettarla.

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