Lauro De Bosis non aveva ancora trent’anni quando, ai comandi di un biplano chiamato Pegaso, precipitò in mare. Come Icaro, figura mitologica cui aveva, indovinando il suo destino, intitolato un dramma in versi.

Successe poco meno novant’anni fa, il 3 ottobre del 1931. Il piccolo aereo, spinto da un motore da 80 cavalli, si schiantò sulla superficie del Mar Tirreno lungo la rotta Roma-Marsiglia. Era un viaggio di ritorno. Quello d’andata si era concluso con una beffa clamorosa ai danni della Regia Aeronautica comandata da Italo Balbo, fascista della prima ora e gerarca di alto livello del regime autoritario. Contro la “servile vergogna” di quel regime si scagliava buona parte dei messaggi stampati sui 400 mila volantini che De Bosis fece piovere su alcune piazze di Roma e sul Quirinale. Poi il “Pegaso” virò e intraprese il viaggio di ritorno verso Marsiglia, dove però non arrivò mai: se il mitologico Icaro precipitò perché il sole sciolse la cera con cui suo padre Dedalo gli aveva fissato al dorso le ali, al biplano Klemm-L25 fu fatale l’esaurimento del carburante. Il piano di De Bosis prevedeva che l’ultimo tratto del volo avvenisse a motore spento.

Dell’incidente gli italiani non seppero nulla: la notizia, che ebbe grande rilievo sulla stampa internazionale, fu censurata da quella nazionale.

De Bosis è uno degli eroi della resistenza antifascista, un eroe liberale, conservatore e monarchico. E infatti una parte dei voltanti sganciati su Roma contenevano un appello al re, affinché rispettasse il “patto sacro” fra la corona e gli italiani.

Ma chi era, questo aviatore non ancora trentenne?

TRA LIBRI E AZIONE

Innanzitutto era molto di più che un aviatore. Era scrittore, abbiamo visto. Tradizione di famiglia: suo padre, oltre che dirigente d’azienda, era poeta e aveva fondato una rivista letteraria, “Il Convito”, su cui avevano scritto Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Anche la madre di Lauro De Bosis, Lilian Vernon, americana, scriveva poesie.

Settimo di sette figli, Lauro De Bosis, nato a Roma nel 1901, si laureò in chimica nel ’22 ma già l’anno dopo assisteva alla messa in scena, nel teatro del Palatino, di un Edipo Re di Sofocle nella sua traduzione, e la sua vita fu un avanti e indietro fra Roma e New York. Nel ’26 ottenne la cattedra di Lingua e Letteratura italiana all’università di Harvard. L’anno dopo il giovane ma già illustre professor De Bosis tradusse, ancora da Sofocle, l’Antigone. Più tardi sarà la volta del “Prometeo incatenato”.

A questo punto, la sostanziale approvazione con cui aveva inizialmente guardato l’ascesa del fascismo si era definitivamente trasformata in un’opposizione radicale: sono gli anni in cui, tentando di saldare liberali, monarchici e cattolici in un fronte antifascista, si impegnò prima nell’Italy America Society e poi nell’Alleanza nazionale per la libertà. Fu proprio lo smantellamento di quest’ultima da parte dell’Ovra, la polizia segreta fascista, con l’arresto di due militanti e della stessa madre di De Bosis, poi rilasciata, a convincere il giovane letterato a decollare a bordo del “Pegaso” per un volo che replicava quello dannunziano su Vienna e Trieste.

I TESTI SCOMPARSI

Nel ‘28, alle Olimpiadi di Amsterdam, quando ancora alle olimpiadi erano ammesse anche competizioni artistiche, oltre che sportive, il suo poema “Icaro” – che oggi nessuno legge più – aveva vinto la medaglia d’argento (quella d’oro non fu assegnata). Il testo fu poi stampato nel 1930 e, come tutto ciò che portava la firma di Lauro De Bosis, fu fatto sparire dalle librerie italiane dopo la beffa del volo su Roma e la morte tragica del poeta aviatore. Incluse, ovviamente le traduzioni.

Fra queste, c’era un testo capitale: Il Ramo d’oro di James Frazer, ricchissima rassegna di pratiche religiose e magiche, superstizioni e miti di tutto il mondo. Uno di quei libri che, passando dai re sacerdoti ai culti della vegetazione, dai sacrifici rituali alle feste del fuoco (vi si parla anche dei fuochi di San Giovanni in Sardegna) hanno segnato più profondamente la cultura del secolo scorso, dal poema La terra desolata di T. S. Eliot (1922) fino al film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979). De Bosis lo tradusse nel 1925, per l’editore Alberto Stock di Roma. Dopo il ’31, per poterlo leggere gli italiani dovranno aspettare il dopoguerra: il grande scrittore (e grande editor) Cesare Pavese lo ripubblicò nel ‘50, sempre nella traduzione di De Bosis, nella gloriosa (e all’epoca criticatissima, da destra e da sinistra) Collana Viola della Einaudi, la Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici che Pavese guidava insieme all’antropologo Ernesto De Martino. Ed è certamente questa traduzione, ancora oggi la più diffusa e letta in Italia, il lascito più duraturo di questo singolare eroe dell’antifascismo italiano.

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