Un sindacato per gli influencer. La proposta farà sorridere molti, qualcun altro – che ha in mente gli operai e la lotta di classe – si sarà già indignato. Eppure è tutto vero: le nuove star del web chiedono più tutele per il proprio lavoro (e anche ora qualcuno solleverà un sopracciglio), dunque quale può essere il miglior sistema per proteggersi se non quello di creare una associazione di categoria? «Gli influencer, e soprattutto i micro-influencer, devono fare squadra», è il discorso di Mafalda De Simone, 25enne campana da 176mila followers su Instagram, intenzionata a «fondare un sindacato specifico, che tuteli questo mondo di partite Iva dove i diritti sono un privilegio rispetto alle moltitudini di doveri che si hanno».

Una pazzia? Non proprio, visto che il modello a cui si vuole ispirare questa piccola Tina Anselmi dei social network è stato già realizzato in America, dove certe tendenze nascono sempre in anticipo di qualche anno: negli Usa esistono le sigle Aic (American Influencer Council) e Tcu (The Creator Union). A cosa servono? Questi sindacati, più o meno come tutti gli altri, regolano gli aspetti economici del mestiere, supervisionando i contratti e garantendo un trattamento paritario a tutti gli influencer, a prescindere dal numero di seguaci.

«È un errore pensare di far tutto da soli», ha aggiunto Paola Di Benedetto, 26 anni, 1,7 milioni di followers, «bisogna proteggersi, avere alle spalle qualcuno che ti preceda e tratti per te con le aziende. In Italia è difficile che quello degli influencer venga considerato un lavoro: dai 50mila follower in poi, trattare da soli non conviene, meglio rivolgersi a un’agenzia. E poi attenzione: si può guadagnare bene, ma si può perdere altrettanto velocemente il consenso».

Per capire meglio bisogna fare un passo indietro e rispondere alla domanda delle domande: fare l’influencer è un lavoro? Per prima cosa, bisogna dare un contorno più definito ai possibili guadagni. Chi ha un profilo con circa 30mila followers (in Italia circa l’8% degli iscritti a Instagram ha tra i 10mila e i 50mila seguaci) può guadagnare dai 100 ai 180 euro per ogni post. Una foto con i prodotti da sponsorizzare, un video in cui si beve una tisana o si pubblicizza un fondotinta – ma c’è anche un universo maschile da raggiungere, con vini, orologi, scarpe da tennis – e il gioco è fatto. Attenzione: non tutti incassano un bonifico. I pesci piccoli si accontentano di qualche campione dei prodotti pubblicizzati.  E bisogna considerare che i compensi cambiano a seconda del settore di riferimento.

Salendo di livello, tra i 100mila e il milione di followers (sono pochissimi in Italia: meno dell’1%), crescono anche i guadagni. Si può arrivare a 500 euro per ogni post. Non male. Oltre questo confine, ci sono le star, quelle vere. Il sito Neonmarketing ha pubblicato una classifica dei guadagni degli influencer. In testa, nel panorama internazionale, c’è Cristiano Ronaldo. Ogni post sponsorizzato vale in media 600mila euro. Ariana Grande e Selena Gomez invece si accontentano di (circa) 400mila euro.

In Italia guida ovviamente Chiara Ferragni: un suo intervento sui social vale 52mila euro. Quello di Fedez 25mila. In mezzo alla coppia d’oro dei social c’è Gianluca Vacchi, che tra un balletto e l’altro può guadagnare circa 40mila euro per ogni post.

Il guadagno degli influencer è legato anche (o soprattutto) alla capacità di conversione, ovvero al potere di trasformare i like in reali acquisti. La notorietà non basta: bisogna anche avere un’interazione con il pubblico, in modo da soddisfare l’algoritmo dei social e moltiplicare il proprio valore. E spesso dietro ai post c’è dietro uno studio a tavolino proprio per massimizzare l’efficacia sui followers. Insomma: non ci sono solo pose e filtri dell’iphone.  

Certo: per un influencer è ancora difficile spiegare ai nonni – i boomers – in cosa consista il proprio lavoro, ma questo succedeva fino a poco tempo fa anche per altri impieghi, che nel frattempo hanno guadagnato una dignità. E ora sono considerate vere professioni.

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