Era sopravvissuto alla poliomielite, che l’aveva colpito all’età di sei anni, nel 1952, e per 72 anni - paralizzato dal collo in giù - ha guardato il mondo dal pertugio di un polmone d’acciaio, con brevi periodi in cui poteva uscire e respirare autonomamente. Paul Alexander, texano di Dallas, è morto l’11 marzo scorso dopo una vita comunque vissuta intensamente: la laurea, la professione di avvocato, un amore, l’impegno per i diritti dei disabili. Una storia che ricorda quelle di due donne italiane: Rosanna Benzi, che ha vissuto 29 anni (dal ‘62, è morta nel 1991) dentro il respiratore artificiale; e Giovanna Romanato, immobilizzata per 63 anni, dal 1956 (era tredicenne) al 2019.

In un tempo neanche troppo lontano, quello dell’infanzia di chi oggi ha più di sessant’anni, l’agente patogeno che faceva più paura era il virus della poliomielite, la terribile malattia infettiva che colpiva soprattutto i bambini riducendoli alla paralisi e, nei casi più gravi, all’impossibilità di respirare. Nei ricordi di ciascuno di noi ci sono le immagini di coetanei finiti sulla sedia a rotelle, con i tutori alle gambe o le stampelle; e quelle di bambini confinati dentro i polmoni d’acciaio, giganteschi macchinari che hanno preceduto i moderni ventilatori delle terapie intensive.

Nell’estate del 1958 furono 8.300 i casi di poliomielite registrati in Italia, con centinaia di bambini colpiti nelle forme più gravi. In Sardegna, nell'ultimo scorcio di quel decennio, la media annuale oscillava attorno ai 130-150 casi rilevati, una curva che nella primavera del 1959 si era impennata drammaticamente a causa di una catena di contagi a Cagliari e in tutta la provincia che allora comprendeva anche il Sulcis e parte dell’Oristanese. Tra il capoluogo e la provincia, nei primi cinque mesi dell’anno furono denunciati ben 133 casi (l'85% bambini dai 3 mesi ai 6 anni), 108 dei quali tra aprile e i primi giorni di maggio.

Erano dati allarmanti, tanto che dopo una concitata riunione in Regione, l’assessore alla sanità Salvatore Cara dispose l’aumento immediato del numero dei posti letto. In pochi giorni, tra il Centro poliomielitici (annesso alla clinica pediatrica) e l’ospedale Santissima Trinità, si arrivò a 250 posti letto a disposizione dei piccoli pazienti. «Ma per una efficace lotta all’epidemia - avvisò con una nota l’assessore alla sanità -, la popolazione sarda deve strettamente collaborare con l’autorità sanitaria sottoponendo i bambini alla vaccinazione».

Un appello che cadde nel vuoto, tanto che fu ripetuto anche dalle colonne dell'Unione Sarda l’8 maggio 1959, dieci giorni prima che si rendesse necessaria la chiusura delle scuole come misura di contenimento dell’epidemia. Un appello che aveva i toni dell’estremo tentativo di convincere le famiglie a immunizzare i propri bambini, ancor più perché si avvicinava la stagione calda (il poliovirus amava il caldo). Il vaccino antipolio, gratuito, era stato raccomandato per tutti i bambini, «indigenti o meno», dai 3 mesi ai 6 anni. C’erano centri vaccinali in ogni comune, nelle sedi periferiche dell’Omni (l’Opera nazionale maternità), negli uffici di Igiene; e intanto - poiché il contagio avviene attraverso le feci (con l’ingestione di acqua o cibi contaminati) o la saliva (le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da persone malate o da portatori sani) - venivano ricordate le più elementari regole igieniche.

Ma se ovunque nell'Isola una qualche risposta era arrivata, nella più grande città della Sardegna v’era invece diffidenza, paura. «Pregiudizi difficilmente scalfibili», diceva il sindaco allargando le braccia.

Nonostante le rassicuranti notizie che arrivavano dagli Stati Uniti e dalla Russia sul successo del vaccino, era ancora forte l’eco di uno dei più grandi disastri farmacologici degli Usa dove, nel 1955, a causa di un errore di produzione di una delle industrie fornitrici che aveva immesso sul mercato 120 dosi con poliovirus vivi, cinque bambini erano morti e altri cinquanta restarono paralizzati. Ovviamente i protocolli di produzione del vaccino furono rivisti in maniera ancora più severa e da allora negli Stati Uniti venivano immunizzati ogni anno milioni di bambini, ma le ragioni per considerare il farmaco sicuro e affidabile non bastavano a scalfire il pregiudizio delle famiglie, l’ostinazione delle mamme irriducibili.

La poliomielite è stata in tutto il mondo uno degli incubi del Novecento, eppure si è riusciti a debellarla e oggi vengono segnalati casi solo in Pakistan, Afghanistan e in alcuni stati dell’Africa. Un incubo che si cominciò ad arginare grazie a una colossale campagna di vaccinazione di massa (prima col farmaco Salk, poi col Sabin e di nuovo Salk, sviluppati negli Stati Uniti nei primi anni ’50), che tuttavia in Italia registrava una scarsa adesione soprattutto al Sud. Basti dire che in questa parte del Paese l’incidenza di infezioni poliomielitiche era di ben tre volte superiore rispetto al Nord, ed è per questo che nel 1966 il vaccino antipolio è diventato obbligatorio.

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