La premessa d’obbligo per qualunque articolo dedicato al “bregret”, il rimpianto britannico per aver scelto la Brexit, così consistente e frequente da aver meritato un neologismo, è che comunque il Regno Unito non tornerà nell’Ue.

Per molti motivi, a cominciare dal fatto che per la politica britannica è inconcepibile ritrattare l’adesione all’esito di un referendum, foss’anche consultivo come quello voluto nel 2016 dall’allora premier David Cameron, che lo volle per blindare il legame fra Londra e Bruxelles e si trovò travolto politicamente dal prevalere del “leave”. E poi perché nessuno dei due partiti maggiori può anche solo concepire un obiettivo di questo tipo. Né i conservatori, a maggior ragione oggi che sono guidati dal Rishi Sunak, che è un brexiteer meno folkloristico e più pragmatico di Boris Johnson ma resta appunto un brexiteer, e anche piuttosto convinto. Né tantomeno i laburisti, che all’epoca del referendum sotto la guida di Jeremy Corbyn assunsero una posizione ambigua e tutto sommato irresoluta, spaventati tanto dall’idea di disgustare l’elettorato metropolitano e smart che amava l’Europa quanto dall’ipotesi di far infuriare la working class della periferia geografica e sociale, che si era bevuta allegramente la propaganda sull’Unione come freno burocratico alla competitività e all’espansione economica. Oggi che hanno al vertice il moderato-blairiano Keir Starmer, i laburisti possono predicare un rapporto costruttivo e armonioso con gli ex partner continentali, ma non hanno la minima intenzione di mettere in discussione una scelta di popolo percepita come definitiva.

Perciò qualunque europeo felice di essere tale può ragionevolmente aspettarsi un solo vantaggio politico dai ciclici e (per ora) sempre più netti accessi di nostalgia per l’Ue che percorrono l’opinione pubblica britannica: proporli al mondo e a sé stessi come un gran spot made in Uk sull’attrattività del modello europeo.

L’occasione più recente è quella del 30 marzo, quando il Guardian ha analizzato i risultati del sondaggio realizzato dal progetto internazionale World Values Survey. I numeri sono piuttosto chiari e ribaltano – spiega il giornalista Robert Booth – uno stato di cose che durava da circa trent’anni: i britannici hanno più fiducia nell’Europa che nel Parlamento di Westminster. Secondo un declino che dal referendum sulla Brexit a oggi ha visto un calo di dieci punti, si è ridotta al 22 per cento la quota di cittadini britannici che si fidano del loro Parlamento, e parallelamente anche la fiducia nel governo di Londra si è progressivamente ridotta fino a toccare livelli analoghi, mentre la “confidence” verso l’Unione europea oggi prevale nel 39 per cento degli intervistati. Non solo: gli intervistati “contenti” del divorzio di Londra da Bruxelles sono appena il 24 per cento, mentre il 49 per cento si dice “deluso”.

Per trovare i motivi di questo ripensamento così profondo Booth interpella David Davies, che conosce piuttosto bene il dossier visto che dal 1994 al 1997 fu ministro per l’Europa nel governo di John Major e dal 2016 al 2018 è stato segretario di Stato per l'uscita dall'Unione europea nel gabinetto di Theresa May. Le cause ipotizzate sono fondamentalmente tre. Un’inefficienza conclamata della classe politica britannica davanti alla crisi della pandemia da Covid-19 (che ha messo a durissima prova il sistema sanitario britannico ma soprattutto ha registrato una linea ondivaga del governo di Londra, che oscillava fra la speranza nel miracoloso e imminente effetto gregge e il goffo cinismo del premier Johnson, che suggeriva di lavarsi le mani per il tempo necessario a cantare “tanti auguri a te” e intanto ammoniva a prepararsi a perdere molte persone care, in particolare quelle attempate). Poi c’è l’Ucraina, che da quando è stata invasa dalla Russia non fa che bussare sempre più vigorosamente alla porta dell’Unione europea facendola apparire agli occhi dell’opinione pubblica come un seducente paradiso di diritti, legalità e armonia. E infine una notazione meno prevedibile. Come scrive Booth riportando il parere di Davies, “dopo la Brexit i media – ha nominato Sun, Daily Telegraph, Times e Daily Mail – hanno smesso di prendere continuamente a calci Bruxelles” come ai tempi della campagna elettorale e “adesso nessuno legge più di fragole quadrate o di banane dritte”. Ed è una chiosa interessante, se si considera che il trampolino della carriera politica di Boris Johnson nel Partito conservatore fu il periodo fra il 1989 e il 1994, quando come corrispondente da Bruxelles proprio del Telegraph raccontò ai britannici l’Unione europea come un mostriciattolo con un cuore da burocrate e smanie espansioniste oggettivamente hitleriane. Una caricatura dell’Ue che gli valse l’antipatia e la disistima di molti giornalisti incaricati di raccontare l’Europa alla Gran Bretagna, ma anche la simpatia e l’attenzione di una lettrice euroscettica almeno quanto lui: Margaret Thatcher.

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