Siamo i soliti ritardatari: per anni in Italia ci siamo concentrati sulla pochette di Giuseppe Conte ed ecco che nelle aule parlamentari di Parigi e Madrid il dibattito si annoda intorno alla cravatta.

Cioè su un accessorio dell’eleganza maschile vecchio di quattro secoli – in realtà qualcosa di simile lo indossavano già i militari romani, ma il prototipo dell’attuale cravatta nasce durante la Guerra dei Trent’Anni, importato in Francia dalle truppe croate, come denuncia l’etimologia della parola – che nella vita di tutti i giorni vediamo sempre meno spesso e in ambienti sempre più circoscritti, eppure riesce ancora a innescare dibattiti e prese di posizione.

In conferenza stampa Pedro Sanchez, primo ministro di una Spagna che ha attraversato giorni torridi con temperature a 45 gradi, ha fatto notare ai giornalisti che non portava cravatta. Non per un vezzo informale e giovanilista ma per dare un buon esempio ambientalista: “Quando non è strettamente necessaria vorrei che non portaste la cravatta, perché questo significa che tutti possiamo risparmiare energia”, ha spiegato di aver detto anche a ministri, parlamentari e dirigenti dell’amministrazione pubblica e chiedendo al settore privato, dai manager in giù, a fare lo stesso. Perché come spiegava l’Ansa, illustrando la svolta casual del finora incravattatissimo premier socialista, tenere il colletto della camicia slacciato abbassa la temperatura corporea di 2-3 gradi, anche se si indossa la giacca, perché la pelle del collo è uno dei regolatori della temperatura. E due o tre gradi di meno significa un minore impulso ad accendere l’aria condizionata o a alzarne la potenza, con immediate ripercussioni sui consumi.

La proposta non è nuovissima, anche se lanciata da un capo di governo suona più significativa. Già nel 2007 in Italia Ermete Realacci, ecologista di rito gentiloniano e allora presidente della commissione Ambiente, proponeva di abolire la cravatta nelle aule parlamentari e nelle aziende pubbliche per abbassare i consumi dell’aria condizionata (e il ministro dell’Ambiente, il Verde Alfonso Pecoraro Scanio, lo scavalcava a sinistra invitando i dipendenti del ministero a presentarsi al lavoro in maniche di camicia “perché più della cravatta è la giacca che fa sentire caldo”).

Ma la cravatta nelle sedi istituzionali aveva già conosciuto altre contestazioni. Qualcuno ricorderà la personalissima battaglia del senatore leghista Francesco Speroni, che ottenne di entrare a Palazzo Madama con il collo cinto da un cordino di cuoio da cowboy dato che il regolamento del Senato impone la cravatta, sì, ma non specifica che non possa essere texana. In quel caso il clima e l’aria condizionata non c’entravano nulla: la cravatta era un simbolo di sussiego istituzionale che una forza antisistema come la Lega di quei tempi, quella della canotta e del gesto dell’ombrello, non poteva che detestare (e alla fine comunque il “bolo tie” di Speroni si rivelò esteticamente meno eversivo delle cravatte che sfoggiò in seguito, effettivamente in seta ma decorate con gruppi di maiali, ovvero faccioni di James Dean, caricature di Bossi oppure inquietanti e quaresimali pennellate di viola tinta unita).

Altri tempi, altri simboli. Eppure trent’anni dopo la stessa identica battaglia rispunta in Francia, ad opera della pattuglia politicamente più lontana dalla Lega d’antan che si possa immaginare. Qui la polemica è nata dopo che il deputato conservatore Eric Ciotti ha auspicato l’obbligo di cravatta per i deputati francesi, in polemica con il look molto informale di molti parlamentari della sinistra radicale della France Insoumise di Mélenchon. Immediata la reazione delle deputate mélenchoniane, che si sono presentate in aula incravattate contro il “sessismo” di Ciotti, autore di una proposta “profondamente reazionaria e chiusa alle donne, visto che si tratta di un accessorio di moda maschile”.

Prima di archiviare con un sorrisetto la protesta incravattata delle deputate Insoumise, una rapida considerazione. Se in Italia il dress code parlamentare è più stringente per gli uomini (cravatta obbligatoria in Senato, alla Camera dai tempi della presidenza Ingrao è indispensabile solo la giacca) non è per maggiore rispetto verso l’autodeterminazione stilistica delle donne, e perciò nessun diktat su tacchi o gonne, ma perché si tratta di club istituzionali che nascono come profondamente ed esclusivamente maschili. La prova che la vaghezza dei codici non sia per forza sinonimo di libertà l’abbiamo avuta a maggio, quando una funzionaria di Montecitorio ha allontanato dalla tribuna la giornalista di “Domani” Lisa Di Giuseppe perché non aveva le spalle sufficientemente coperte.

Eppure per le deputate la regola non vale, visto che nemmeno due mesi più tardi Federico Mollicone di FdI su Twitter ha protestato contro “Montecitorio Beach” postando foto di parlamentari a suo giudizio troppo sbracciate e scollate.

Quindi, per sintetizzare i canoni stilistici delle assemblee parlamentari: in Francia si vogliono ripristinare solo per gli uomini e questo è letto come maschilismo, in Spagna si vogliono abolire in nome dell’ambientalismo, in Italia valgono solo per gli uomini a meno che la donna non sia una giornalista, nel qual caso le regole si possono anche improvvisare.

(Sia detto per completezza: più tardi alla giornalista sono arrivate le scuse dalla Camera. A firma di una donna, la vicepresidente Maria Edera Spadoni).

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