Recitò il copione del sequestrato con la certezza che l’ultima scena gli sarebbe stata fatale. «Pensavo che mi avrebbero ucciso». Invece l’attore ventiseienne Giampiero Arba fu rilasciato dall’Anonima il 22 luglio 1978 sulla Nuoro-Siniscola, ventiquattr’ore dopo essere stato portato via da una villa in Costa Smeralda con i polsi legati col fil di ferro: «I rapitori mi liberarono senza pagare un soldo. Un miracolo». 

Oggi è un sessantanovenne distinto che ha vissuto molte vite e progetta il ritorno stabilmente nell’isola: «Per quarant’anni ho fatto il mercante d’arte, ora mi godo la pensione». Questa è la fine della storia. Prima però, molto prima, c’è stato lo scoppiettante decennio a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, illuminato da luci stroboscopiche e addolcito da bellissime donne, set fotografici e amicizie importanti. Tutto iniziò in quello che allora era un centro agricolo: Assemini. Da giovanissimo venditore di enciclopedie Giampiero Arba percorse in lungo e in largo la Sardegna sino a quando capì che gli stava stretta: «A diciannove anni mi trasferii a Roma». Chi l’aiutò? «Quel che accadde fu solo farina del mio sacco. In un mese mi scritturarono per il primo fotoromanzo». Le cronache gli attribuirono una compilation di flirt, anche con Linda Christian, moglie di Tyron Power e mamma di Romina: «Mi occupavo di pubbliche relazioni, caroselli, pubblicità, moda, cinema». In questo clima si fidanzò con Sabine, la bella figlia dell’industriale parigino George Louri e seguì la famiglia di lei al completo nelle vacanze del ’78 in una villa a Cala di volpe. Alle 21.15 del 21 luglio era in quello spicchio di paradiso smeraldino, alla guida di una Mercedes Pagoda, accanto a lui fidanzata e suocera: «Appena rientrati a casa dall’aeroporto di Olbia. L’aereo sul quale viaggiava il papà di Sabine sarebbe partito con due ore di ritardo da Parigi e lui ci avrebbe raggiunto con un taxi. Uomini incappucciati aprirono gli sportelli, ci scagliarono per terra e mi portarono via. Erano convinti che fossi un parente di cui chiedere il riscatto».

Cosa ricorda?

«Pensavano che fossi il figlio dell’ingegner Louri. Percepivo la velocità folle dell’auto. Ero legato, imbavagliato, non respiravo. La paura mi impediva di stare zitto, facevo domande di continuo. Per tapparmi la bocca mi colpirono alla testa col calcio del fucile».

Quanto durò il viaggio?

«Non so dirlo con esattezza. Ricordo quando scesi dalla macchina, bendato, mi obbligarono a camminare in campagna. C’era un freddo dell’altro mondo. Mi dissero: “È un sequestro”. E io che c’entro con i sequestri? Mi minacciarono». 

La liberazione?

«Più o meno dopo ventiquattr’ore. Intravedevo le macchine sfrecciare a qualche decina di metri, mi lanciai verso la strada con la benda in testa, si fermò un signore con un furgone, gli dissi: “Sono quello sequestrato ieri”. Mi accompagnò in Questura a Nuoro».

Rivide i sequestratori senza il passamontagna?

«Dopo la loro confessione, mi telefonò un maresciallo di Alghero per dirmi che si erano pentiti e che speravano di ottenere la grazia dal presidente della Repubblica. Prima però avrebbero dovuto avere il perdono da me. Glielo concessi. Non porto rancore neppure al peggior nemico».

Sabine Louri (foto concessa)
Sabine Louri (foto concessa)
Sabine Louri (foto concessa)

Ripercussioni sulla vita privata?

«Mi ha rovinato l’esistenza. Ho sofferto di claustrofobia per decenni, ancora oggi quando passo in una galleria non vedo l’ora di uscire».

Conviveva con la paura?

«Anche con il fastidio di aver perso una barca di soldi».

Perché?

«L’ingegner Louri avrebbe dovuto fare una montagna di lavori in Medio Oriente: un appalto da mille miliardi. Mi aveva offerto di gestire le pubbliche relazioni».

Le cronache di allora non furono tenere con lei.

«Alcune insinuazioni mi diedero molto fastidio».

Quali?

«Che fossi stato io a organizzare il sequestro, lo pensavano anche i carabinieri. Per due anni mi hanno pedinato. La verità venne a galla quando confessò uno dei sequestratori». 

La reazione dei suoi familiari?

«Presero un bello spavento, li sentii solo al telefono perché tornai direttamente a Roma».

Giampiero Arba (foto concessa)
Giampiero Arba (foto concessa)
Giampiero Arba (foto concessa)

La infastidiva essere definito playboy?

«Non ci ho mai fatto caso. A Roma ero un habitué del Jackie O’, da lì passavano i personaggi più importanti dell’epoca. Frequentavo donne bellissime, ho girato il mondo e stretto tante amicizie». 

Cosa le è rimasto di quei giorni difficili?

«Ho provato a rimuovere l’intera vicenda, ma ogni tanto affiorano pensieri nefasti». 

Il rapporto con Sabine?

«Fu travolto dagli avvenimenti e finì».

Mai più vista?

«Dieci anni dopo ero a Parigi per valutare alcune tele. La cercai, ci incontrammo, mi fece un piacere enorme vederla con una bambina. Accettò di fare una vacanza assieme e prendemmo in affitto per due mesi una villa a Villasimius». 

Com’è cambiata la Costa Smeralda?

«Non è rimasto nulla dello spirito di allora».

E la Sardegna?

«Vorrei viverci. Mi manca l’aria, l’atmosfera. Anche se certi difetti sono rimasti».

Quali?

«Sono partito da Civitavecchia per arrivare a Cagliari venti ore più tardi. È inconcepibile, nel 2021». 

Il segreto con le donne?

«Essere se stessi, ci vuole umiltà. La naturalezza è sempre la carta vincente, nessuno vuole accanto una persona che finge».

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