In una vecchia barzelletta (ma d’altronde di nuove non ne esistono, come teorizzò Asimov nel suo angoscioso racconto “Jokester”) un tipo polemico vede un bar con l’insegna “Panini con tutto”, entra a passo di carica e chiede a gran voce un panino con la balena. Il barista allarga le braccia imbarazzato e subito il tipo pianta una grana esagerata, si lamenta, urla che scriverà al sindaco per far rimuovere l’insegna ingannevole, protesta e strepita finché dal retrobottega spunta il proprietario, che lo fissa con un certo sangue freddo e domanda: “Quanti siete?”. Il tipo, interdetto, risponde che è solo. “E allora – lo liquida l’altro – vedi di trovarti un po’ di amici: per un panino solo io una balena non la scongelo”.

Il Giappone del 2021 è un po’ nelle condizioni di quel barista, con la differenza che di balene nel freezer ne ha moltissime e non sa che farsene. Eppure continua ad ammazzarle, con la sola compagnia (almeno dichiarata, perché poi c’è anche chi questa caccia feroce non la rivendica ma la tollera) di Islanda e Norvegia.

Nel 1982 Tokyo aveva appeso l’arpione al chiodo aderendo alla moratoria della caccia alle balene dichiarata dall’Iwc, la Commissione internazionale per la caccia ai cetacei (Iwc). Già quattro anni dopo l’attività aveva ricevuto nuovo impulso, sia pure in proporzioni ridotte e dietro la foglia di fico delle motivazioni scientifiche. Sarebbe facile ironizzare sul valore scientifico di questo genere di esperimenti, visto che nessun ricercatore può ipotizzare che ficcando un arpione in un mammifero marino si possa ottenere un risultato diverso dall’ucciderlo.

Anzi, per entrare un po’ più nello specifico leggiamo la descrizione che Andrew Darby dà dell’uccisione nel suo “Caccia alla balena”: “Un arpione a granata del peso di 45 chili esce dalla bocca del cannone filando a 113 metri al secondo e colpisce l’animale che ha lo stesso ingombro di un autoarticolato a pieno carico. Non appena si conficca nella carne, l’arma a punta smussata rilascia quattro ardiglioni d’acciaio, fa scattare un innesco e qualche millisecondo dopo la pentrite della granata esplode. Il cavo che collega l’arpione alla nave si tende e gli ardiglioni dentati si aprono nel corpo della balena, uncinandola”

Ma oltre che facile, ironizzare sulla valenza scientifica di questo genere di esperimenti sarebbe anche inutile, visto che Giappone è andato avanti imperterrito con le sue ricerche e infine, due anni fa, è uscito dall’Iwc annunciando la ripresa della caccia a scopi dichiaratamente commerciali, con buona pace della Corte dell’Aia che ha espressamente vietato questa pratica. Un’attività che neanche la pandemia ha fermato: “Quattro navi – informava un’Ansa del 4 aprile -sono salpate alle prime ore dell’alba dalle città di Hachinohe e Ishinomaki, rispettivamente nelle prefetture di Aomori e Miyagi, a nord dell’arcipelago. Un’altra baleniera si unirà a loro nel mese di giugno dall'isola più a nord dell'Hokkaido, ha riferito l’Agenzia nazionale che racchiude le cooperative dei pescatori. Le navi hanno l’obbiettivo di catturare 120 balenottere nella costa di Sanriku, sul versante nord orientale del Paese, nei prossimi due mesi, prima di spostarsi nell’Hokkaido fino al termine di ottobre”.

Il premier giapponese Suga (foto archivio L'unione Sarda)
Il premier giapponese Suga (foto archivio L'unione Sarda)
Il premier giapponese Suga (foto archivio L'unione Sarda)

È presumibile che le baleniere giapponesi centreranno con facilità questo loro target produttivo. Quello che non è facilissimo da capire è perché ci tengano tanto. Di certo non è una questione di soldi. In media ogni giapponese consuma appena 30 grammi di balena ogni anno. La domanda insomma più che modesta è ridicola. La produzione invece è sostenuta, ma visto che la gran parte della carne finisce nei congelatori il governo deve sostenere economicamente il settore con robusti aiuti di stato: la caccia ai cetacei, spiegava Alessandra Muglia sul Corriere della Sera nel 2018, “negli ultimi trent’anni è costata ai contribuenti qualcosa come 400 milioni di dollari”.

Per risolvere l’enigma bisogna tornare al dopo-Bomba, ai giorni drammatici del dopoguerra quando gli Usa spedirono il generale Douglas MacArthur come plenipotenziario nel Giappone messo in ginocchio dall’atomica e che però doveva in qualche modo sopravvivere, per trasformarsi da nemico di ieri in alleato e mercato di domani. In un Paese devastato e incapace di sfamare la popolazione, le balene rappresentavano una fonte preziosa di proteine e così il generale autorizzò la ricostituzione di una flotta baleniera. Per invogliare la popolazione al consumo di quella carne nutriente si mise in piedi una retorica a presa rapida sulla balena come alimento nipponico per eccellenza, trofeo di una caccia gloriosa e impegnativa quanto una battaglia, e la cosa – in una nazione umiliata nelle sue tradizioni militari, bisognosa di autostima e di amor proprio quanto di calorie – funzionò.

Funziona ancora e funziona fin troppo, visto che la pressione politica della destra tradizionalista e delle generazioni più attempate, che hanno conosciuto la fame atroce del dopoguerra e vedono il cetaceo come un’antica manna venuta dal mare, dissuadono il governo dal fermare la strage e firmare un trattato di pace con i colossi dell’acqua. Sostenere una caccia che non ha mercato per la selvaggina costa comunque meno dal punto di vista economico di quanto costerebbe politicamente mandarla in soffitta. La cultura non si mangia, dice un modesto motto di spirito attribuito a Giulio Tremonti che ripetutamente – e purtroppo inutilmente – ha giurato sul proprio onore di non aver mai detto “una sciocchezza del genere”.

La cultura a volte si mangia, invece, e a volte resta nel congelatore. In certi casi la cultura uccide.

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