La storia del piccolo Nicola si è snodata esattamente come una fiaba, come uno di quei racconti di per sé spaventosi - il bosco, il buio, il lupo -, e infine rassicuranti, che aiutano il bambino a crescere, a esplorare le proprie emozioni, a osservare il mondo che lo circonda. A neanche due anni, Nicola è sceso dal letto, è uscito di casa che era notte, ha camminato tra gli alberi per tre chilometri ed è stato ritrovato 36 ore dopo in fondo a un dirupo: chiamava mamma, era disidratato e impaurito. La fiaba paurosa e a lieto fine del bambino è finita lì, tutto quello che a lui serve e servirà in futuro per misurarsi nella ricerca della sua autonomia. Il resto è stato un minestrone di cronaca e chiacchiere, sospetti e giudizi che stanno dentro il nostro mondo di adulti. Tutti a puntare il dito contro i genitori, Pina e Leonardo, che hanno scelto di vivere nelle campagne dell’Alto Mugello coltivando l’orto e allevando capre e api. Ogni cosa fatta in casa, niente sprechi, la corrente prodotta da un piccolo impianto fotovoltaico. Una vita di fatica, di scelte consapevoli e realizzate. Una roba da frichettoni, invece, secondo chi abita da quest’altra parte del mondo, la moltitudine dei genitori perfetti e infallibili che sui social ha puntato il dito indagatore. È interessante notare che l’unanime attacco sui social contro i genitori del bambino che si è perso nel bosco, nasconda in realtà una paura: quella di perdere nel bosco il proprio figlio, nipotino, insomma il piccolo di casa. Una paura al quadrato: e se si dovesse perdere, come se la caverebbe? Ogni genitore sa, in cuor suo, la risposta. «Può capitare a qualunque genitore, anche al più apprensivo, che il figlio si allontani, magari durante una gita in montagna o in spiaggia. Per questo credo che tutto il clamore suscitato da questa storia, più che ai fatti sia legato a una visione dell’educazione del bambino oggi», dice Lorenzo Braina, pedagogista, formatore di educatori, autore di diversi saggi e guida di genitori pieni di domande. «Una visione non incentrata all’autonomia e allo svincolo del bambino, bensì all’attaccamento».

Cosa c’è di sbagliato?

«C’è che oggi il genitore si vede come indispensabile mentre, al contrario, deve rendersi inutile al bambino. Deve cioè creare le condizioni per la propria inutilità, lavorare per l’autonomia del figlio, perché il bambino possa fare a meno di lui».

«È un bambino autonomo», ha detto il papà di Nicola. Quanto presto si può cominciare a educare i figli con questo obiettivo?

«Si comincia quando il bambino nasce: il taglio del cordone ombelicale è già un atto di svincolo. Si prosegue con l’allattamento e lo svezzamento, il bambino già comincia a fare a meno della mamma. Per il resto, si inizia a farlo da subito, insegnandogli qualunque autonomia in relazione all’età e al contesto in cui si vive».

C’è una misura? Insomma, fino a che punto li si deve rendere autonomi?

«Trovare la misura è come trovare la pietra filosofale. La misura va cercata ogni minuto, ogni istante, osservando il bambino dentro casa ma soprattutto fuori. La sua capacità di inserirsi in un ambiente, la relazione coi coetanei, la capacità di stare con adulti che non siano i genitori. Il bambino manda dei segnali. L’alta incidenza di fobie sociali e di depressione infantile e adolescenziale è dovuta al fatto che abbiamo una generazione spaventata, spaventata dal mondo. C’è una frase che troppi genitori dicono ai figli...».

Quale?

«Non aver paura che qui ci sono mamma e papà. È rassicurante, ma non mette al sicuro: quando mamma e papà non ci sono cosa succede? La frase che mette al sicuro è: non avere paura che ce la fai senza mamma e papà».

Sembra esattamente il modello educativo dei genitori fino agli anni Ottanta del ’900...

«Allora sbagliavano, quando accadeva, nel buttarci troppo in strada. Però è vero che lavoravano per lo svincolo dei figli».

Non andava bene come modello educativo?

«Diciamo che c’erano esagerazioni, allora come oggi. Ripeto, quello che andrebbe fatto è dare al bambino un porto sicuro mettendo le basi anche per lo svincolo».

È la fiducia in sé che va costruita?

«Sì. Il bambino ha un potenziale: se tu gli versi l’acqua non impara a versarsi l’acqua; se gli leghi le scarpe, non imparerà a farlo da solo. Si chiamano compiti di sviluppo e sono quelli che i bambini devono attraversare, in base all’età e alla società dove vivono. Se glieli fai aggirare o li svolgi tu per lui non si fa le gambe, non si allena, non cresce».

Magari è più facile per dei genitori che vivono in un paese, o in una frazione agricola come quella della famiglia del piccolo Nicola...

«Certo, se un bambino vive a Fonni è normale che vada in giro, perché i genitori lavorano per lo svincolo, per l’autonomia e per la protezione comunitaria. Se invece lasci in giro a Cagliari un bambino anche di otto, dieci anni sei una persona da servizi sociali. In città purtroppo c’è meno possibilità di controllo sociale».

Quindi come si fa a rendere autonomo un bambino che abita in città?

«Per esempio insegnandogli ad attraversare la strada. Le racconto una storia della mia infanzia: io sono cresciuto ad Arborea e da noi c’erano i canali di irrigazione dove da bambini andavamo a pescare e a fare il bagno. Sa cosa facevano i padri ad Arborea? Ci insegnavano a tuffare e a nuotare, ci mostravano come dovevamo aiutarci in caso di difficoltà. Lavoravano per l’autonomia».

In pratica cosa si può fare? Insegnare al bambino a prendere l’autobus da solo è troppo?

«No, non è troppo. Ma si possono organizzare anche gruppi di bambini che vanno a scuola insieme, facendo le prime volte la strada con lui e presentandogli il negoziante che c’è a cento metri da casa, quello che sta a 200 metri e così via. Dicendogli: se hai bisogno puoi rivolgerti a loro. Si chiamano Piedibus, le strade dei bambini a piedi, e nascono dalla sensibilizzazione del territorio. Le vie sono segnate coi nomi dei negozianti sul marciapiedi, quei commercianti che si rendono disponibili a dare uno sguardo ai bambini e sanno che dalle 8,10 alle 8,30 passano davanti alla loro attività. Ci sono già tante esperienze anche in Italia».

Sembra facile, ma per i genitori apprensivi può essere un incubo.

«L’autonomia è un’orizzonte. Se credo nell’educazione dei bambini all’autonomia, ogni mia azione sarà orientata in quella direzione. Se non ci credo ogni azione è orientata alla mia presenza, alla dipendenza, a mettere il bambino al sicuro. Il bambino, però, non sarà al sicuro perché questo mio agire serve a rassicurare soprattutto me e le mie paure».

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