Lei e il fratello potevano contare su una radiolina, l’unico contatto col mondo nei sessanta giorni della loro prigionia. «I rapitori ce la portarono e ci permettevano di tenerla accesa», raccontarono Marina e Giorgio Casana all’Unione Sarda il 23 ottobre 1979, il giorno dopo la liberazione. Erano stati rapiti il 22 agosto di quell’anno mentre prendevano il sole sul gommone al largo di Capo Pecora, nell’estate che in Sardegna contò decine di sequestrati. Lei aveva 16 anni, lui 15, e restarono nelle mani degli incappucciati per 61 giorni. Marina Casana è morta a 61 anni il 22 maggio scorso, in ospedale a Torino dov’era ricoverata per problemi polmonari. È stata testimone e vittima, assieme al fratello, di uno dei periodi più bui della storia della Sardegna; tempi fortunatamente passati, ma sui quali – va detto – nell’Isola non è mai stata fatta un’adeguata riflessione.

Non si sono rimarginate, invece, le ferite dei sequestrati ritornati a casa, quelle finanziarie e quelle dell’anima. E colpisce, a rileggere i loro racconti dei giorni di prigionia, la pervicace ricerca di uno spazio di umanità, di civiltà pur in quella condizione di barbarie. Uno spazio che non era soltanto quello interiore dei pensieri, ma finiva bensì per essere legato a un oggetto, a un animale, a qualcosa. Per i fratelli Casana fu la radiolina dalla quale poterono ascoltare anche l’appello della madre e del Papa per la loro liberazione. La radiolina, un mazzo di carte e qualche giornale con le parole crociate.

Questi e altri oggetti da niente che per i rapiti sono stati buoni compagni di viaggio, degni puntelli della fantasia che li aiutava a rendere tollerabile l’orrore. Avete presente la zucca di Robinson Crusoe, con gli occhi e la bocca disegnati? Lui ci parlò per ventotto anni, tutto il tempo in cui restò naufrago sull’isola deserta. Vero, è solo una divertente storia per ragazzi, ma nessun ex sequestrato riderà mai di un uomo che parla con una zucca.
I talismani di Titti Pinna furono la preghiera e una forchetta, quella lurida posata che lui utilizzò come grimaldello per allargare la catena e fuggire via. Cristina Berardi, invece, aveva ottenuto di tenere con sé due cose: una radiolina transistor incerottata - con la quale poteva ascoltare le trasmissioni nazionali - e un paio di candele che usava per bruciare i grossi ragni. Per anni, una volta tornata libera, ha fatto collezione di radio transistor. E per anni, ha raccontato, ha tenuto un cassetto pieno di steariche.
Giuseppe Vinci aveva creato una sorta di rituale con le due mele che ogni sera gli permettevano di prendere sonno. Trecento giorni dentro un cubo di compensato. Sulle orecchie musica a palla: i suoi carcerieri avevano paura che sentisse rumori e voci e lo costrinsero a portare le cuffie di un walkman e ad ascoltare tutto il giorno Phil Collins ed Eros Ramazzotti. Gli davano due mele per cena. Lui ne sbucciava una e ne conservava la buccia. Faceva un paio di flessioni, ripeteva a memoria le canzoni di Fabrizio De André, e prima di sbucciare la seconda mela mangiava la buccia della prima. Così, tutte le sere. Giuseppe Vinci finiva le mele e prima di chiudere gli occhi salutava le macchie di umidità che si allargavano sul compensato: una croce e un principe egiziano bambino.
I conigli furono invece gli amici di Farouk Kassam. Il bambino - custodito da Matteo Boe per 177 giorni in una grotta sui monti di Lula - fu costretto a mangiare il suo vomito e a sopportare il taglio dell’orecchio. Eppure resistette, come un uomo che sa come affrontare l’orrore. I topi, i grossi ratti che gli ballavano attorno, lui li trasformò in conigli.
Michelangelo Mundula, farmacista rapito a Dorgali nel 1988, chiamava Bobore e Il Che i suoi carcerieri e conservava come una reliquia l’orologio che quelli gli permisero di tenere per un mese e mezzo. Per tanto tempo, ritrovata la libertà, ringraziò il fratello laureato in giurisprudenza e la sua tesi sul sequestro di persona. L’aveva letta qualche settimana prima che i banditi lo portassero via: lui ha sempre detto che gli è servita come un mantra.

C’è stato anche chi, come Gianni Murgia, è rimasto imbottigliato 83 giorni in un antro sottoterra, nascondiglio di una casa di Austis. Piegato come un cristo, ha pensato a una cosa soltanto: tenere, per quanto possibile, in allenamento i muscoli e la memoria. Riusciva a fare ginnastica senza neanche spostarsi e a incamerare dati come un calcolatore elettronico. Raccontò di non poter dimenticare mai il giorno in cui gli fece visita un gatto. Gli era sfuggito un sorriso mentre il suo cervello registrava: maschio, colore grigio, striature miele. Mss, mss, aveva sussurrato il custode richiamando la bestiola. Pss, pss, pisittu, fu invece il richiamo dell’ostaggio. Perché lo chiami così? gli chiese il bandito. Perché noi a Dolianova chiamiamo così i gatti, era stata la sua risposta. Fu grazie a quella bestiola che Gianni Murgia cominciò a pensare che il suo carceriere fosse un barbaricino. Soltanto nel Nuorese, spiegò poi, chiamano i gatti con quel suono. Ma questo piccolo particolare Totoni Corria, latitante di Orgosolo, non poteva immaginarlo.

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