Oggi è la pandemia, cent’anni fa era la guerra. La Storia, quando accade, ha il potere di non lasciare intuire da subito del suo passaggio e della sua portata dirompente.

Soltanto nel 1916, un anno dopo l’inizio del primo conflitto mondiale, in Italia le autorità militari e il governo si resero conto che la guerra sarebbe durata ancora a lungo. Oggi che combattiamo un altro genere di battaglia, e contro un nemico forse più subdolo, una presa di coscienza sembra ancora di là da venire.

È sul fronte della riorganizzazione d’emergenza del sistema sanitario che si nota la differenza tra l’oggi e il nostro passato remoto. Oggi affannosa e incerta, un secolo fa pronta e puntuale. Oggi, per dire, servono anestesisti e dottori di ogni branca della Medicina, ma a quasi due anni dall’inizio della pandemia i corsi universitari restano a numero chiuso.

Un secolo fa, esattamente il 13 febbraio 1916, fu fondata l’Università Castrense per rispondere all’esigenza di formare nel più breve tempo possibile giovani medici da impiegare nella cura dei soldati feriti. Gli alti comandi militari si erano resi conto che i mille ufficiali medici in servizio all’inizio della guerra non potevano bastare. Anche se si poteva contare sui camici bianchi e gli infermieri della Croce Rossa (che aveva militarizzato tutto il personale), furono richiamati gli ufficiali medici in congedo, arruolati i medici civili (spesso col grado di maggiore), e si pensò infine alla formazione accelerata degli studenti.

Sezione staccata dell’Università di Padova, l’Università Castrense aveva sede a San Giorgio di Nogaro, a ridosso dell’Isonzo, ed era una scuola medica da campo dove si tenevano i corsi accelerati per gli studenti del sesto anno e, subito dopo, anche del quinto. Furono quasi 1.200 i giovani formati dai docenti scelti tra i più grandi luminari dell’epoca. Giovani medici militari poi inviati negli ospedali da campo, preparati per curare la moltitudine di feriti arrivati sulle barelle, e più spesso a dorso di mulo, dopo ogni assalto, dopo ogni battaglia di una guerra di trincea che mandava le truppe al massacro. Basti pensare che solo nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo, combattute nel 1915, i soldati italiani morti furono 66mila e i feriti ben 180mila. Soldati perlopiù dilaniati dal fuoco delle mitragliatrici, delle bombe a mano, dei proiettili dum-dum, armi e munizioni usate per la prima volta su larga scala. Corpi che avevano perduto gambe, occhi, braccia, mascella, orecchie, naso.

Oltre ai 650mila morti (400mila al fronte, 100mila in prigionia, i restanti a causa di malattie contratte durante la guerra) e ai 40mila reduci finiti in manicomio, in Italia furono mezzo milione i mutilati e invalidi.

I soldati morivano soprattutto per dissanguamento o in seguito all’infezione delle ferite e delle fratture, facili prede di setticemia, tetano e cancrena anche per via delle terribili condizioni igieniche delle trincee popolate di topi, pidocchi, escrementi misti al fango. Non esistevano gli antibiotici (dovevano passare un paio di decenni prima che nel 1929 Alexander Fleming, medico e farmacologo inglese, annunciasse le proprietà antibatteriche della penicillina), ma i medici degli ospedali da campo riuscirono comunque a salvare tante vite grazie ai primi disinfettanti antibatterici: l’ipoclorito di sodio (con il principio attivo della comune varechina, si chiamava soluzione di Dakin-Carrel) e la tintura di iodio.

I soldati colpiti all’addome non venivano neppure assistiti, poiché la perforazione dell’intestino portava a morte certa. Dei feriti alla testa e al torace ne sopravvivevano tre su dieci, mentre andava meglio a chi riportava lesioni alle braccia e alle gambe: avevano salva la vita, ma quasi sempre dopo l’amputazione.

Proprio negli anni della prima guerra mondiale, l’enorme sforzo della scienza medica portò a grandi risultati. Per tentare di porre rimedio alle conseguenze dell’orrore dei campi di battaglia, furono messe a punto nuove tecniche della chirurgia e dell’ortopedia. Nacque in quegli anni la chirurgia plastica moderna che, con l’innesto di lembi di pelle prelevati dalle parti sane del corpo, ricostruiva il volto dei soldati sfigurati dalle schegge di granata. Anche i mutilati tornati dal fronte poterono contare su un’assistenza migliore, grazie alle nuove protesi e allo sviluppo della riabilitazione (l’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, per esempio, curò migliaia di reduci).

In quella grande macelleria che fu la prima guerra mondiale, la scienza medica assolse dunque ancora una volta alla sua missione: salvare quante più vite possibile. E regalare la speranza nel futuro.

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