La riforma della giustizia penale agita la politica. Il tema della prescrizione divide chi ha orrore di un processo infinito e chi invece pensa non si possa stabilire a priori un termine per mettere la parola fine a un procedimento giudiziario, specie per i reati di mafia, terrorismo droga, violenza sessuale. Si è sfiorata la crisi di governo ma si è arrivati giusto ieri a una sintesi, ed era quello che ci si aspettava dal momento che la riforma è una condizione indispensabile per accedere ai fondi del Recovery Fund. Ma non basterà individuare un tempo massimo per dire che si è veramente riformato il settore e nel contempo snellite le procedure che lo appesantiscono. Bisogna intervenire sulla durata del processo, su questo sono tutti d’accordo, ma nel senso di fare in modo che si svolga in tempi davvero ragionevoli. Solo così la Giustizia potrà fare il suo corso arrivando il prima possibile a un verdetto.

Il problema è del processo penale ma anche di quello civile. Anzi, qui l’efficacia della giustizia ha una portata se possibile ancora maggiore perché va a incidere sul sistema produttivo del Paese. Non è un caso se nel rapporto annuale della commissione europea sulla giustizia si sia sottolineato che “il buon funzionamento e la piena indipendenza del sistema giudiziario può avere un impatto positivo sugli investimenti e contribuire alla produttività e alla concorrenza”.

Da nove anni l’Unione europea dà i voti ai gli Stati membri e ancora una volta l’Italia non è fra i primi della classe. Tutt’altro, stando ai parametri individuati: efficienza, qualità, indipendenza. Il problema del Belpaese è legato soprattutto all’efficienza della macchina giudiziaria. Con un’avvertenza: i numeri e le statistiche sulle quali ha lavorato la commissione per l’ultima pagella si riferiscono all’epoca pre pandemia, cioè al 2019.

Con quattro milioni di cause civili all’anno l’Italia rientra nella media europea. Il problema dunque non è il numero dei processi bensì il tempo necessario per risolvere le liti.  Per arrivare a una sentenza di primo grado servono la bellezza di 13 mesi. Questo dato ingloba i procedimenti amministrativi. Se li si esclude l’Italia precipita ancora più in basso: penultima in Europa con 500 giorni di processo per arrivare a un primo verdetto.

Se si va poi a guardare quanto tempo trascorre in media per una decisione definitiva, in Cassazione, l’Italia è al penultimo posto con 1.300 giorni: il distacco dalla penultima in classifica è notevole, Malta impiega la metà del tempo.

Record negativo anche per le cause amministrative per dirimere le quali in Italia servono 900 giorni solo per il primo grado.

Sugli arretrati si risale invece qualche posizione: i tribunali amministrativi sono riusciti a smaltire il 25 per cento ma restano tre milioni le cause da smaltire nei settori civile e commerciale.

Le pagelle della commissione giustizia dell’Unione europea confrontano anche le modalità di smaltimento dei processi penali su singoli reati. Va malissimo quando si tratta di decidere sulla violazione della proprietà intellettuale (800 giorni per una sentenza di primo grado) e sulla tutela dei consumatori (400 giorni). Quanto al riciclaggio di denaro, tenuto in grande considerazione da questa statistica perché incide sull’economia, l’Italia è a metà classifica con 600 giorni per il primo grado.

Sono pochi i magistrati rispetto al numero di quelli che lavorano nei tribunali europei, viceversa sono moltissimi gli avvocati.

Lo studio affronta anche la questione legata alla tecnologia digitale dei processi: l’Italia è in ritardo anche in questo specifico settore. E c’è un problema importante dovuto alla percezione della reputazione dei magistrati preso la cittadinanza: il 40 per cento pensa non siano indipendenti ma soggetti a pressioni e interferenze politiche o economiche.

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