Dove cinque anni fa fallirono 65.853.514 elettori americani, il 19 novembre è riuscito un medico.

Parliamo dell’anestesista del Walter Reed Medical Center di Betsheda, nel Maryland, che ha sedato Joe Biden per consentirgli di sottoporsi a una colonscopia: durante quegli 85 minuti di incoscienza del presidente i poteri sono stati trasferiti, ma forse dovremmo dire affidati, alla vicepresidente Kamala Harris. Che finché non è arrivata la telefonata di Biden (sveglio e “di buon umore”, ha precisato la Casa Bianca) è stata la prima donna al vertice della più grande potenza mondiale. E quindi ha centrato l’obiettivo che nel novembre 2016 Hillary Clinton fallì, pur ottenendo circa tre milioni di voti in più rispetto a Donald Trump.

È evidente che la supplenza di Harris ha giusto una rilevanza statistica e simbolica: il dato politico sostanziale resta che finora gli Usa non si sono mai affidati a una donna coma Commander in Chief. Eppure l’episodio, come hanno sottolineato in tanti, una sua rilevanza ce l’ha. Non foss’altro perché Trump nel 2019, quando si dovette sottoporre allo stesso esame, tenne la cosa segreta e non cedette i poteri al suo vice Mike Pence. Un po’ perché non lo aveva in simpatia, un po’ perché temeva che qualcuno potesse prenderlo in giro trovando buffa o grottesca l’idea della colonscopia (così almeno scrisse l’ex portavoce della Casa Bianca Stephanie Grisham nel suo libro di memorie, liquidato da Trump come “noiosa spazzatura”).

Non è chiarissimo se il silenzio di Trump sia stato solo un dispetto a Pence o una violazione alla Costituzione e alla sicurezza degli Stati Uniti (in linea molto teorica gli Usa avrebbero potuto subire un attacco nucleare in piena colonscopia e rimanere incapaci di reagire fino al risveglio del Paziente in capo), ma di fatto un vicepresidente non ha mai dovuto assumere decisioni importanti durante una microsupplenza come questa, neppure quando alla Casa Bianca c’era l’ormai rivalutato (più per demeriti trumpiani che per meriti suoi) George W. Bush, che a quell’esame di sottopose per due volte.

Lo stesso protocollo enfatizza poco il ruolo del numero 2, che quando assume transitoriamente i poteri supremi non cambia neppure scrivania e resta nel suo ufficio, lasciando lo Studio Ovale in attesa del legittimo inquilino.

Un po’ come avviene in Italia, in effetti, a parte ogni considerazione sul fatto che il ruolo internazionale del nostro Paese non è paragonabile a quello degli Usa e quello costituzionale del nostro presidente non è nemmeno lontanamente accostabile a quello del presidente americano, così denso di poteri esecutivi. Anche da noi il supplente non cambia ufficio, ed è un bene soprattutto dal punto di vista organizzativo, altrimenti al Quirinale sarebbe un via vai piuttosto intenso: tra momenti di “sede vacante”, dovuti al fatto che quasi mai il presidente uscente può passare le consegne a un successore già eletto, e periodi di supplenza dettati dai viaggi all’estero del capo dello Stato (una prassi prevista in tempi tecnologicamente remoti, quando non c’erano telefonini né connessioni internet), spessissimo nella storia repubblicana i compiti solenni ma quasi notarili del presidente italiano sono stati affidati a un reggente. Per lunghi mesi, nel caso di Merzagora che fece da supplente quando Segni fu colpito da una trombosi e anche dopo, quando il primo presidente sassarese si dimise e ci vollero tempo e votazioni prima di individuare in Saragat il successore. O per alcune manciate di ore, come quando spettò a Grasso garantire la continuità delle funzioni costituzionali tra la conclusione dell’inedito novennato di Napolitano e il giuramento di Mattarella. Le cronache di quei giorni lo ritraggono perplesso e quasi emozionato: spero di tornare presto, mi mancherà l’Aula, disse ai senatori. E poi soggiunse, pensieroso: certo, quando uno dice così può sempre sentirsi rispondere: lei invece non ci mancherà. Poi ebbe inizio la transizione, che ebbe come unici effetti visibili l’apparizione di due corazzieri davanti al suo ufficio di Palazzo Giustiniani e il fatto che un commesso installò dietro la sua scrivania il vessillo del presidente facente funzioni. Che è un vessillo quasi scolorito, con la ruota dentata in argento (e non in oro) in campo bianco, ideata durante il suo settennato da Cossiga (notoriamente appassionato di emblemi, stendardi e uniformi) che pure subito prima di salire al Quirinale fece, dopo l’addio di Pertini, la sua esperienza da supplente.

Perché in Italia funziona in modo speculare – e quindi in qualche modo opposto, ma per altri versi identico – rispetto agli Stati Uniti: lì tra le attribuzioni del vicepresidente c’è la guida del Senato, da noi fra i compiti del presidente del Senato c’è l’eventuale reggenza della prima carica dello Stato.

Per questo, ora che a Palazzo Madama c’è Maria Elisabetta Alberti Casellati, è probabile che dopo molti regni e alcune repubbliche d’occidente anche l’Italia faccia l’esperienza di avere una donna al vertice delle istituzioni. Naturalmente è possibile che i grandi elettori ascoltino l’appello dei tanti – D’Alema ultimo in ordine di tempo – che chiedono di eleggere una presidente. Ma in un Paese per molti versi rimasto culturalmente agli anni Ottanta - quando al cinema nella saga pecoreccia di Alvaro Vitali e dintorni impazzava “La supplente”, mentre i Novanta si aprirono con il romanzo di Almansi “Donna da Quirinale” che già nella trama è tutto un manifesto - è statisticamente più probabile che i fautori del settennato rosa debbano accontentarsi di una reggenza di qualche giorno, giusto al termine del semestre bianco.

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