C’è un caso in cui la legge prevede il carcere per i giornalisti che siano riconosciuti colpevoli del reato di diffamazione ed è quello in cui si attribuisca a una persona un fatto  - delittuoso - determinato. Si scrive, per esempio, che il tale ha corrotto qualcuno o che ha frodato il fisco o che ha ottenuto soldi per accelerare una pratica. In sostanza, se attribuisce a qualcuno la commissione di un reato il giornalista viene condannato da un minimo di un anno di reclusione fino a un massimo di sei.

Ebbene, dopo vari pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo e dopo aver atteso invano la legge sollecitata un anno fa, la Corte Costituzionale il 22 giugno è intervenuta dichiarando illegittima la pena detentiva obbligatoria per la diffamazione a mezzo stampa prevista  dall’articolo 13 della legge sulla stampa per contrasto con l’articolo 21 della Costituzione e l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è la prima decisione di questo tipo in oltre 70 anni.  Con la stessa sentenza (di cui si attendono le motivazioni entro la fine di luglio) la Consulta ha invece lasciato ai tribunali la possibilità di graduare la pena - da sei mesi a tre anni -  come alternativa alla multa (non inferiore ai 516 euro) per la diffamazione commessa con qualunque mezzo, anche da non giornalisti. Non solo più con la stampa, dunque, ma pure attraverso internet. Deve però trattarsi di fatti di straordinaria gravità, legati all’odio razziale e all’istigazione alla violenza oppure a vere e proprie campagne ripetute nel tempo con lo scopo di danneggiare la reputazione della persona di cui si scrive.

Per arrivare a questa decisione la Corte costituzionale ha tenuto conto di due principi fondamentali. Il primo è contenuto nell’articolo 2 della Carta: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo”. Il secondo è previsto dall’articolo 21: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

Questi principi sono stati bilanciati con gli articoli 8 e 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla tutela della reputazione: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza; ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

Con la sentenza la Consulta  sollecita ancora il Parlamento italiano per un “complessivo intervento in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione individuale”, in un momento storico in cui ci sono sempre maggiori “pericoli connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione”.

L'aula della Corte costituzionale (foto archivio L'Unione Sarda)
L'aula della Corte costituzionale (foto archivio L'Unione Sarda)
L'aula della Corte costituzionale (foto archivio L'Unione Sarda)

La Corte costituzionale si allinea alla Corte europea dei diritti dell’uomo pure in materia multe: se sproporzionate rispetto al reddito configurano un’ingerenza nella libertà di espressione perché hanno effetto dissuasivo. Questa ingerenza è ammessa solo e soltanto se è prevista dalla legge, è giustificata da scopi legittimi espressamente previsti, è necessaria in una società democratica. Il campo è limitato alla diffusione di odio e all’istigazione di violenza.

Il legislatore dovrà dunque lavorare a una norma ad hoc, eppure non ha ancora affrontato la questione delle liti temerarie, cause avviate col solo scopo di intimidire i giornalisti (e le aziende editoriali) in modo che non scrivano: se la sentenza accerta la totale infondatezza della denuncia si dovrebbe prevedere il pagamento di un pegno da parte di chi si è rivolto al tribunale.

Per ora c’è solo la decisione della Corte costituzionale sul carcere che sembra una vittoria ma forse lo è a metà: l’eliminazione della reclusione fino a sei anni ha come effetto immediato quello di non passare più per il filtro dell’udienza preliminare. Il pm può procedere con la citazione diretta e il processo si potrà svolgere davanti a un giudice onorario anziché un togato.

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