“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole”: solo un poeta come Fabrizio De Andrè era in grado di raccontare in maniera così lirica quello che passa per la testa di “Un matto” (impossibile essere politicamente corretti, il titolo è proprio questo). Il resto del mondo, invece, ha trattato queste persone con fastidio, come polvere da nascondere sotto il tappeto. Quello che, tutto sommato, è accaduto anche a Cagliari, addirittura a partire dal quattordicesimo secolo.

Allora, nell’attuale via Manno, fu realizzato l’ospedale Sant’Antonio. Una struttura moderna per quei tempi, addirittura con la suddivisione dei reparti in base al genere (anche se, chissà per quale oscura ragione, i pazienti ricoverati per patologie veneree venivano sistemati nelle stesse camerate a prescindere dal sesso). Una struttura moderna anche nella sua organizzazione con i medici cittadini che dovevano prestare il loro servizio anche nell’ospedale e gli infermieri reclutati tra quei condannati dall’Inquisizione che evitavano così il carcere.

Tutto perfetto. Tranne il fatto che, appunto, si nascondeva la polvere sotto il tappeto. Perché i malati di cui ci si vergognava, i “matti” appunto, la finivano nei sotterranei dove trascorrevano le loro giornate incatenati. E le cose non andavano meglio di notte. Anzi: si racconta che, mentre tutti dormivano, spesso alcuni degli ospiti di quei sotterranei morivano. In che modo? Veniva somministrata loro una bevanda venefica, chiamata, col tempo, “su brodu ‘e mesunotti” (“il brodo di mezzanotte”). Un’usanza mai codificata: gli studiosi ritengono che i destinatari di questo inumano trattamento fossero quelle persone che avevano problemi di natura sessuale.

Con il passare dei secoli, quanto meno, queste morti cessano. Ma il trattamento non migliora di tanto. Occorre attendere sino al 1859 per riportare questi pazienti alla luce del sole: al San Giovanni di Dio, l’ospedale progettato da Gaetano Cima, viene riservato loro un padiglione, il “reparto dei folli” dove vengono ricoverati. Ma non basta. E alcuni di loro vengono dirottati in una struttura dedicata nel quartiere di La Vega.

Ancora troppo poco, tuttavia. Così, stando a quello che riporta il “Bollettino del manicomio di Cagliari” del 1890, si cerca una nuova area da destinare ai matti. Nasce Villa Clara anche se il nome originario di quell’edificio immerso nel verde del parco era Villa Ghiani, dal momento che il primo proprietario era il deputato e banchiere Pietro Ghiani Mameli. Quello che era il villino estivo di una famiglia benestante finisce con il trasformarsi nel ricovero dei malati psichiatrici. E mica pochi: si calcola che, nei cento anni di vita, siano finiti dietro quelle alte mura circa sedicimila persone.

Un luogo, inizialmente, scelto con buoni propositi: essendo, relativamente, distante dalla città, garantisce tranquillità e aria salubre, ripara dal maestrale e, vista la vastità degli spazi, consente anche la creazione di un’azienda agricola. Che non viene mai realizzata perché, di giorno in giorno, aumenta il numero di ricoverati. Così, vengono acquistate le aree confinanti e realizzati sei nuovi padiglioni (quelli, per intendersi, che ora vediamo nella Cittadella della salute di via Romagna). Edifici indispensabili nei quali sono ricoverati i pazienti in base al sesso, al tipo di patologia e alla loro pericolosità. E, comunque, giusto per non rischiare niente, quel gigantesco parco viene rinchiuso all’interno di un imponente muro di cinta.

Una polvere che resta sotto il tappeto per quasi un secolo. Sino a quando, nel 1978, il Parlamento non approva la cosiddetta “Legge Basaglia”, quella che abbandona l’approccio improntato alla reclusione (e alla coercizione) dei malati psichiatrici per tentare, invece, di inserirli nella vita sociale. Una battaglia all’insegna dell’umanità che a Cagliari non sortisce effetti, o quasi, per vent’anni: i “matti” continuano a essere ospitati a Villa Clara sino al 1998. Una situazione che, in quegli anni, crea in città non poche proteste e polemiche. Ma, appunto, il Ventesimo secolo si chiude con la scomparsa di quell’inquietante manicomio.

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