“Molto sapone e nervi saldi”, titolava L'Unione Sarda in prima pagina mercoledì 5 settembre 1973. In città era stato accertato un caso di colera, quello di un pescatore di Selargius che aveva raccolto arselle nello stagno di Santa Gilla, ne aveva venduto «abbondantemente», scrisse il giornale, e altrettanto abbondantemente ne aveva mangiato. Lui, come altri dieci pazienti ricoverati con sintomi di enterocolite acuta al reparto Infettivi del Santissima Trinità.

«Casi isolati»

Sapone e nervi saldi, dunque. Igiene, era la raccomandazione di quei giorni in cui a Cagliari le autorità sanitarie non parlavano di epidemia bensì di «casi isolati». La linea, comunque, in base alle direttive del ministero della Sanità, era quella delle più rigorose restrizioni a partire dal divieto di pesca, vendita e consumo dei frutti di mare. Divieto ampiamente inosservato: solo il sabato e la domenica precedenti, i vigili urbani avevano sequestrato nei ristoranti e sui banchetti dei venditori ambulanti di Cagliari ben due tonnellate di cozze, arselle, datteri, murici. E un'altra tonnellata nel litorale di Quartu.

Le notizie da Napoli

Mentre a Napoli, Bari e Foggia il colera imperversava dal 20 agosto e già si contavano una ventina di morti, nel capoluogo della Sardegna accadeva quel che succede a ogni allerta sanitario: chi nega il pericolo, chi grida all'untore, chi con razionale contegno osserva le regole, chi va nel panico. Le notizie in arrivo da Napoli raccontavano di una città in preda alla psicosi. Il primo settembre, nella metropoli partenopea era stata avviata una campagna di vaccinazione di massa con l’ausilio delle squadre di infermieri dell’esercito Usa che iniettavano il siero utilizzando delle moderne pistole inoculatorie a pressione. Il 5 settembre erano già state vaccinate un milione e 200mila persone, ma nei quartieri popolari –  dove cresceva la protesta per la lentezza delle operazioni – si moltiplicavano gli assalti ai centri di vaccinazione e ai furgoni che trasportavano le scorte. 

Spazzatura e acque nere

In quella prima settimana di settembre, a Cagliari le autorità erano in stato di preallarme. Furono disposte la rigorosa pulizia delle strade, l'eliminazione degli immondezzai e l'igienizzazione dei mercati, provvedimenti che valevano a poco in una città disseminata di discariche di rifiuti (fin nell'area di via Roma dove sarebbe stato costruito il palazzo del Consiglio regionale) e attraversata da canali puzzolenti che raccoglievano gli scarichi fognari. Ancora nel 1973, il capoluogo della Sardegna non aveva un impianto di depurazione. La nuova rete fognaria era pronta, c'erano pure gli allacci e l'impianto di sollevamento per il depuratore, ma quest'ultimo - che sarebbe dovuto sorgere a Sant'Elia - non era stato impiantato per via dell'opposizione degli abitanti del quartiere a cui seguì la revisione del primo piano particolareggiato. Sicché la città si affidava ancora alla vecchia rete fognaria e scaricava in mare, mentre ovunque - nei quartieri della periferia e persino in alcune zone del centro cittadino - erano ammonticchiati cumuli d'immondizia.

La paura diffusa

Non sembrò opportuna una vaccinazione di massa, si ritenne invece necessario immunizzare i lavoratori a contatto col pubblico, i portuali e le persone che dovevano partire all'estero. Nonostante le categorie stabilite e le rassicurazioni del sindaco e del prefetto, col passare dei giorni - e l'incremento dei ricoveri in ospedale - in città si diffuse il panico. A partire dal 10 settembre, quando sull'Unione Sarda comparve in prima pagina la notizia della morte di un vecchio (un 72enne indebolito da diverse malattie, dissero i medici), migliaia di cagliaritani prendevano d'assalto ogni giorno gli ambulatori comunali e l'ufficio di sanità marittima per chiedere la dose anti-vibrione, mentre al Santissima Trinità - dove arrivavano decine di persone con sintomi preoccupanti o anche un semplice mal di pancia - i due medici e i sei infermieri che da una settimana erano in isolamento con i malati al reparto Infettivi, erano oramai allo stremo delle forze.

La clinica requisita

Le autorità invitavano alla calma, tuttavia, caso mai ci fosse stata la mala parata, oltre agli uffici sanitari per le vaccinazioni furono mobilitati diversi ambulatori e intanto per garantire un certo numero di posti letto in isolamento fu requisita la clinica Sant'Anna. Una soluzione obbligata anche perché c'era la necessità di isolare i familiari di ciascuno dei degenti, almeno per il tempo necessario per valutare se avessero o meno contratto l'infezione. Non era più possibile infatti piantonarli casa per casa e continuare a impiegare in questo servizio decine di carabinieri, agenti di polizia e vigili urbani.

Città e paesi sporchi

A ottobre, con l'arrivo dell'autunno, l'emergenza finì. Si era detto che il colera era arrivato con una partita di cozze proveniente dalla Tunisia (dove il morbo era comparso nel mese di maggio 1973), arrivata a Napoli, poi a Bari e a Cagliari. Ma - quanto alla genesi dell'epidemia - se stiamo al lavoro fatto a Napoli da una commissione di medici specialisti, la responsabilità dei mitili coltivati negli allevamenti (autorizzati ed abusivi) fu esclusa drasticamente dai risultati della perizia. I periti partenopei esclusero la presenza del vibrione colerico di tipo El Thor nei mitili e, invece, certificarono la contaminazione delle acque marine provocata dall’inadeguatezza di un sistema fognario con decine di scarichi autorizzati e abusivi che rilasciavano direttamente in mare le acque nere prodotte in città, nonché gli scarti di lavorazione industriale. Cagliari non era una metropoli come Napoli, ma adesso si trovava in egual modo a dover fare i conti con un’emergenza igienico-sanitaria dovuta a un sistema fognario vecchio e inadeguato. Per la prima volta, in Sardegna e in tutta Italia, l’igiene dei centri abitati (fogne, depuratori, immondezzai, maiali e galline allevati in paese) entra realmente nell’agenda politica e amministrativa. Sembra incredibile, solo cinquant’anni fa.

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