Carne coltivata. Basta la parola per evocare immagini poco rassicuranti.

In pochi ormai mettono in dubbio l’assioma che mangiare troppa carne faccia male al pianeta. La produzione negli allevamenti intensivi ha un impatto devastante. Lo dicono i numeri e lo ammettono pure i carnivori osservanti.

Che poi faccia a chi la consuma lo dicono i cardiologi, consigliando quasi all’unanimità di ridurre le dosi di rossa sugna. È buona ma fa male. Come tante altre cose.

Le fonti autorevoli che sostengono questa tesi sono tante.  Slow Food è tra queste. La carne coltivata in laboratorio però non sarebbe la soluzione giusta per eliminare gli allevamenti intensivi, anche se salva la questione etica, evitando di uccidere gli animali. Slow Food ha già detto anche questo, ma stavolta lo fa con un vero e proprio documento e dettaglia le motivazioni. Il documento diffuso nei giorni scorsi parte dal fatto che “dal 1960 a oggi la produzione di carne è aumentata di cinque volte e, secondo la Fao, potrebbe raddoppiare entro il 2050”. I numeri riportati dall’associazione sono più che attendibili. Parlano di una produzione di carne pari a 45 milioni di tonnellate nel 1950, 30 milioni nel 2018 e 500 milioni nel 2050.

I consumi in Italia sono intorno ai 79 chilogrammi annui a testa: meno di Stati Uniti, Australia, Spagna e Germania, ma quasi il doppio della media mondiale, che nel 2014 era stimata in 43 chilogrammi. “Il problema di un'eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori - si legge nel documento - ma si affronta analizzando con onestà il modello che ha originato questa distorsione e intervenendo per modificarlo radicalmente”. Passare dagli allevamenti intensivi alla produzione su larga scala della carne in fabbrica per Slow Food è come “passare dalla padella alla brace”. Perché il cibo è cultura, oltre che carburante per l'organismo, perché la produzione di carne in laboratorio richiede grandi quantità di energia, oltre al fatto che molti aspetti della produzione stessa sono sconosciuti, perché le aziende si nascondono dietro al segreto industriale.

Ma l’inganno principale è quello dei centri economici, la governance. Non ci vuole molta fantasia per capire che i principali soggetti che puntano ai laboratori sono inoltre gli stessi che dominano la filiera della carne. A questo punto verrebbe da chiedersi se lo fanno per salvare il pianeta. No ovviamente.

Il documento Slow Food analizza anche altre ragioni per il no.

Le monocolture (ossia quelle che prodotte su larga scala sarebbero utilizzate come materia prima per coltivare carne), sono sempre più diffuse, a danno della fertilità del suolo, i fertilizzanti chimici e i pesticidi inquinano, le lavorazioni ad alto contenuto di sale favoriscono malattie cardiovascolari, ipertensione e alcune forme tumorali. “Soddisfare l'attuale domanda globale di carne - sostiene ancora Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia - ha richiesto uno stravolgimento dei secolari metodi di allevamento, dando vita al cosiddetto approccio industriale o intensivo. Un metodo che ha sì assicurato carne per tutti, specie i paesi poveri ma a condizioni ingiuste, inaccettabili e insostenibili. E perfino rischiose. Un’altra epidemia come l’aviaria potrebbe mettere a rischio la vita di milioni di persone.

La soluzione è nota e non passa per le fabbriche di carne sintetica ma per la sostituzione proteica.

Secondo Slow Food, per frenare questa deriva basterebbe ridurre il consumo di carne nei Paesi del Nord del mondo, dando concretezza alla auspicata transizione proteica, piuttosto che promuovere la carne coltivata. Il punto di vista è da cambiare: “È necessario ricercare una soluzione di più ampio respiro, che metta in discussione le abitudini di consumo, invece di cercare la risposta soltanto nella tecnologia, nei brevetti industriali e nei laboratori” afferma Nappini. Una precisazione poi, a tutela dei consumatori. “La ricerca - si legge nel documento - deve essere libera. La carne coltivata però non può essere definita in etichetta "carne", i nomi dei prodotti sostitutivi non devono alludere alle loro alternative naturali, ad esempio “salame”, “latte”, “bistecca”, “hamburger”, “formaggio” per non generare confusione.

Simone Loi

© Riproduzione riservata