Tutto è ripartito dopo che sugli schermi della tv italiana sono rimbalzate le immagini di un popolarissimo programma della televisione russa e di una ragazza, Olesya Rostova, che affermava di essere stata rapita dai nomadi all’età di quattro anni e di non conoscere le proprie origini. Diciassette anni dopo la scomparsa, la storia della piccola Denise Pipitone è tornata sulle prime pagine dei giornali, nei servizi di apertura delle trasmissioni di cronaca nera che appassionano i telespettatori, e soprattutto all’attenzione della Procura di Marsala che ha riaperto le indagini e iscritto due persone nel registro degli indagati. Quanto alla ventenne russa dal passato misterioso, per giorni ci siamo chiesti se fosse o no Denise Pipitone. Non è stato necessario l’esame del Dna: per fugare ogni dubbio è bastata una semplice comparazione del gruppo sanguigno della ragazza con quello della bambina scomparsa. La piccola, dunque, è ancora ufficialmente una delle migliaia di fantasmi che in Italia abitano il mondo degli scomparsi, mentre Olesya, sedicente Denise, è stata in breve tempo ridimensionata a meteora della cronaca spettacolo.

Durò invece ben più il mistero della sedicente Anastasia Romanova, la donna che diceva di essere la figlia di Nicola II, ultimo zar di Russia, e che sosteneva di essere sopravvissuta al massacro della famiglia imperiale avvenuto la notte del 17 luglio 1918 a Ekaterinburg. Un mistero cominciato nel 1920 quando una giovane, ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Dalldorf a Berlino in seguito a un tentativo di suicidio, dopo mesi di mutismo dichiarò di essere la granduchessa Anastasia. La voce, tramite le infermiere, cominciò a diffondersi tanto che diversi parenti dello zar Nicola e della zarina Alessandra cominciarono a far visita alla donna, chi concludendo che questa non poteva essere Anastasia («Non ricorda episodi che conosciamo solo in famiglia») e chi affermando, invece, che fosse proprio la congiunta fino a quel momento creduta morta come i genitori, le tre sorelle e il fratellino. Il partito dei parenti fiduciosi, sembra incredibile, poggiava la propria certezza soprattutto sull’evidenza di un difetto che la sedicente granduchessa presentava a entrambi i piedi: l’alluce valgo. Un difetto che, ricordavano, aveva anche Anastasia.

La ragazza non pronunciava una parola di russo e si esprimeva invece in un rozzo tedesco, argomento questo sostenuto dagli scettici; gli altri replicavano che l’ostinazione a non parlare la lingua madre derivava dal trauma, dall’orrore patito per ordine dei bolscevichi che le avevano sterminato la famiglia. Tra gli scettici c’era Ernie, fratello della zarina Alessandra, che nel 1927 ingaggiò un investigatore privato il quale concluse che in realtà la donna era Franziska Schanzkowska, operaia polacca data per dispersa dopo l’esplosione della fabbrica in cui lavorava.

Nel 1938 la donna misteriosa, che aveva cominciato a farsi chiamare Anna Anderson, avviò una causa per il riconoscimento di identità. Una causa che andò avanti fino al 1970 (due anni prima si era trasferita negli Stati Uniti dove aveva sposato uno scrittore) quando i giudici conclusero che la ricorrente non aveva portato prove certe sul fatto che lei fosse davvero Anastasia Romanova. Seguì un lungo periodo di silenzio fino a che, nel 1984, Anna Anderson morì per una polmonite e il suo corpo fu subito cremato.

La leggenda, però, restò intatta per chi voleva crederci. E il mistero a un certo punto - era il 1989 - fu alimentato dai risultati degli accertamenti sui presunti resti dei Romanov ritrovati dieci anni prima a Ekaterinburg. L’esame del Dna - tecnica messa a punto in Inghilterra nel 1984 - confermò che si trattava proprio delle spoglie della famiglia imperiale russa, ma dei sette componenti ne mancavano due: Alessio e una delle quattro ragazze, forse proprio Anastasia. Un giallo che riattizzò la leggenda, mentre qui occorre annotare che l’accertamento dell’identità di quei resti fu possibile grazie alla comparazione con un campione biologico prestato dal duca Filippo di Edimburgo, marito della regina Elisabetta scomparso lo scorso aprile. Egli era infatti l’ultimo pronipote vivente della zarina Alessandra: sua nonna materna, Victoria Mountbatten, era la sorella della sovrana russa.

Nel 1994 un altro esame del Dna contribuì a chiarire il mistero di Anna Anderson. In un ospedale della Virginia, dove la donna era stata operata diversi anni prima della morte, era conservato un campione di tessuto che fu messo a confronto - anche questa volta - con il corredo genetico della famiglia imperiale, quello di Filippo di Edimburgo e quello di un nipote di Franziska Schanzkowska. Adesso sì, veniva fugato ogni dubbio: Anna Anderson, questo il risultato delle comparazioni, non era la figlia dello zar. Era, invece l’ex operaia polacca che fu ricoverata in manicomio dopo un tentativo di suicidio.

La scienza, però, non aveva dipanato il mistero dei resti mancanti tra quelli della famiglia dello zar. Forse Alessio e una delle sorelle erano davvero scampati al massacro? La risposta arrivò nel 2007 quando, sempre nella regione degli Urali, furono rinvenute le ossa di due ragazzi. L’esame del Dna accertò che si trattava dei resti di Alessio e Maria, rispettivamente il figlio più piccolo e la terzogenita di Nicola II. I pezzi di un puzzle scomposto, di un giallo durato quasi novant’anni, tornavano così al loro posto. Di questa storia sono rimasti diversi film (il più famoso Anastasia, del 1956, con Ingrid Bergman che vinse l’Oscar), libri, documentari. E un dubbio, questo sì impossibile da fugare: Anna Anderson era solo un’impostora o davvero, nella sua follia, credeva di essere Anastasia Romanova?

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