“A Complete Unknown”: alcune delle cose che nel film non si vedono
Il film ha necessariamente dovuto sacrificare alcuni aspetti fondamentali della vicenda che ruota intorno a Bob DylanPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
L’alternativa sarebbe stata farne una serie. Invece per fortuna “A Complete Unknown”, del regista James Mangold, con un impressionante Timothée Chalamet a dare corpo (e voce) a Bob Dylan, è un film. Lunghetto: 2 ore e 20. Che però, per raccontare nella vastità delle sue implicazioni musicali, politiche e di costume un pezzo decisivo della vita e della carriera del cantautore americano (dall’arrivo a New York nel 1961 alla controversa svolta elettrica al Newport Folk Festival nel 1965), sono pochissime. Pur riuscendo a ricreare l’atmosfera elettrizzante del Greenwich Village di quegli anni – tra club, utopie cantate e il fermento del tempo – il film, basato sulla biografia “Dylan Goes Electric!” di Elijah Wald, campione di incassi su un lato e l’altro dell’Atlantico, ha necessariamente dovuto sacrificare alcuni aspetti fondamentali della vicenda: per esempio lasciando in ombra il contesto politico e culturale che ha segnato l’evoluzione del cantautore.
Uno degli elementi mancati riguarda la dimensione dichiaratamente politica della scena folk di protesta. Negli anni ’60, figure come Woody Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez, Alan Lomax e perfino Suze Rotolo (la prima fidanzata newyorchese, quella della memorabile copertina di di “Freewheeling”: nel film, per discrezione, viene ribattezzata Sylvie Russo) facevano parte di un mondo intriso di ideali comunisti e di un impegno militante contro razzismo, sfruttamento e guerra. Per gli ambienti che ruotavano attorno alla rivista Sing Out e che avevano per primi adottato quel promettente e stropicciato menestrello che amava riplasmare il suo passato infarcendolo di balle clamorose (“Ho lavorato in un circo itinerante”, “Questa canzone me l’ha insegnata un vecchio cow boy”) il problema non era tanto la scelta di imbracciare una chitarra elettrica e di farsi accompagnare da una band di rocker: era l’allontanamento ddi Dylan dalle canzoni di protesta con cui si era affermato a New York a segnare un tradimento. Dopo l’omicidio Kennedy, disilluso, il menestrello non considerava più la musica come un’arma politica, uno strumento per unire le voci della gente comune. Il suo nuovo, impellente obiettivo: sfuggire al ruolo di portavoce generazionale. Anche a costo di farsi passare, come faceva nelle interviste, per un «sing and dance man»: «uno che suona e balla».
Wald, autore del libro da cui il film è tratto, ha rilasciato un’interessante intervista a Giovanna Tavierni per L’Indiependente. Il biografo rivendica la scelta di aver sottolineato l’importanza di Pete Seeger, figura chiave del folk revival interpretata nel film da Ed Norton, ma rimarca che nella realtà il rapporto tra Seeger e Dylan era meno personale di quanto mostrato sullo schermo, che tuttavia serva a far capire allo spettatore perché l’adozione dell’elettricità da parte di Dylan suscitasse tanto scalpore: la musica folk era percepita come uno strumento di aggregazione politica, mentre il rock veniva visto come una mera espressione commerciale. E già nella scena del primo incontro fra Seeger e Dylan, di ritorno dalla prima visita in ospedale a un Woody Guthrie ammutolito dalla malattia, il ragazzo ammette che sì, a lui in realtà il rock piace: «Mi piace quasi tutto, in realtà». Mentre per i puristi del folk la musica aveva senso solo se fatta per la gente e fra la gente.
“A Complete Unknown”, da questo punto di vista, può essere letto come l’abbandono di un mentore (Seeger) per un altro, ben più pericoloso e assai meno paterno: il rocker Johnny Cash (interpretato da Boyd Holbrook), cui Mangold aveva dedicato un ottimo biopic (“Walk the line”, del 2005, con Joaquin Phoenix). La svolta elettrica di Dylan fu in realtà il culmine di una trasformazione culturale radicale: il giovane musicista cercava di liberarsi dall’etichetta di “cantautore di protesta” per reinventarsi come poeta e artista. Le critiche dei puristi, che lo accusavano di aver abbandonato le radici politiche, erano in realtà il segnale di una profonda tensione tra due modelli: quello militante e comunitario del folk e quello più individualista e ribelle del rock. Una frattura che, a ben vedere, era evidente già dalle canzoni dell’album “Another side of Bob Dylan”, prima dello choc di “Bringin it all back home”.
Un aspetto totalmente assente nel film, e senza il quale davvero non si può avere un quadro completo dell’universo dylaniano, è il rapporto con la Beat Generation: un’influenza che per Dylan cominciò già prima dell’arrivo a New York (conosceva e amava le poesie di Jack Keoruac) e che sono alla base della trasformazione culturale che, dopo “Like a Rolling stone”, avrebbe ridefinito l’incontro fra musica e poesia per intere generazioni. Allen Ginsberg, di cui Dylan venerava “Urlo”, salutò nel cantautore il vero erede poetico della Beat generation, ringraziandolo per aver portato la loro visione del mondo “nei juke box”, laureandolo “campione di eloquenza” (citava a riprova alcuni versi di “The times they are a-changing”), comparendo nell’iconico video che accompagnava le note di “Subterranean homesick blues” e, anni dopo, lasciandosi coinvolgere nella “Rolling Thunder Revue”. È grazie al modello poetico ed estetico dei beatnik che Dylan volle (e riuscì ad) affrancarsi dal modello “comunista” dei puristi del folk.
Altro aspetto giocoforza marginalizzato è l’impegno antirazzista di Bob Dylan, che fu tra i protagonisti della lotta per i diritti civili e oltre a suonare nella tappa finale della celebra marcia guidata da Martin Luther King (1963, Whashington) andò anche a esibirsi fra gli afroamericani negli Stati ancora segregazionisti del sud. Non solo: anche ben dopo il presunto “tradimento”, si pensi solo all’incisione di una canzone come “Hurricane”, nell’album “Desire” (1976), il cantautore tornerà ad affrontare di petto gli abusi di potere compiuti contro persone di colore.
Quindi? Quindi niente: un film è un film, la realtà è la realtà e dentro un film non si riesce a infilarla tutta. “A Complete Unknown” merita il successo che sta avendo e vale certamente la visione. E l’ascolto: Chamelet per affrontare Dylan si è preparato per oltre cinque anni, imparando per l’occasione a suonare la chitarra e l’armonica, ed è talmente “entrato” nella voce del maestro di Duluth, Minnesota, da regalare esecuzioni magistrali, precise e potenti di alcune delle canzoni più importanti composte nel secolo scorso (a questo proposito: molto belle anche le prove canore di Monica Barbaro, che interpreta Joan Baez). Verrebbe quasi voglia di augurarsi un sequel: ci sarebbe per esempio da raccontare “Blonde on Blonde”, il tour proto-punk del 1966, l’incidente in moto, e, di svolta in svolta, “John Wesley Harding” con i suoi versi intrisi di immagini bibliche, “Nashville Skyline” con il suo indimenticabile duetto con il maestro di rock’n’roll Johnny Cash. Non la si finirebbe più.
Per tamponare la fame di cinema dylaniano restano i documentari di Scorsese e il sorprendente “Io non sono qui”, del 2007, dove per rendere conto della complessità del personaggio e della sua arte il regista di Todd Haynes fece una scelta inedita e coraggiosa: scinderlo in ben sei personaggi, ciascuno interpretato da un attore diverso. Non uno ma sei “completi sconosciuti”. Nel cast: Christian Bale, Cate Blanchett, Richard Gere e Heath Ledger. Lettore avvisato.