Un luminare, ma soprattutto l'uomo che da 23 anni segue da vicino i calciatori del Cagliari come consulente ortopedico. Da lui, da Massimiliano Salvi, è andato - dolorante e preoccupato - Leonardo Pavoletti, un paio di giorni dopo il crac decisamente non sportivo di giovedi scorso. E Salvi, bergamasco, dal 1986 a Cagliari, ex professore universitario e responsabile dell'unità operativa di Chirurgia Protesica e dello sport del Gruppo Korian, poco dopo "le prime manovre", racconta, non ha avuto dubbi: "Rottura del trapianto".

Per un chirurgo di grande esperienza, con oltre 8mila interventi di questo tipo, e già vicino al giocatore in occasione dell'incidente di gioco dell'agosto scorso, una certezza: "Il ginocchio di Pavoletti ha compiuto una discinesia, un movimento innaturale, senza controllo, la rottura del legamento ha sempre una ragione neuromuscolare".

Professor Salvi, quindi parliamo di un incidente che poteva capitare lontano dai campi con identiche probabilità?

"Nel 70 per cento dei casi, quell'infortunio accade senza contrasto di gioco. Se si verifica una mancanza di coordinazione tra tibia e femore, quello è l'attimo in cui il legamento può cedere. Non occorre che ci sia un trauma".

Qual è stato il primo intervento sul calciatore?

"Sabato sera ho visitato Pavoletti, ho aspirato dal ginocchio 120 cc di sangue e subito l'articolazione si è sgonfiata. Con due manovre semplici, ho potuto fare una diagnosi sicura al 100 per 100. È stato un movimento innaturale".

Lei aveva visto e analizzato i referti del precedente intervento, nella clinica Hochrum di Innsbruck: come lo giudica?

"Il dottor Christian Fink, che operò Pavoletti nel settembre scorso in Austria, fece un lavoro adeguato. I tunnel creati per il nuovo impianto mi sono sembrati abbastanza corretti. Utilizzò il tendine quadricipitale, non è la mia tecnica ma fu un intervento di dignità assoluta. Questo evento non è anomalo: la ri-rottura di trapianti ben applicati da chirurghi esperti ha una casistica di cedimento del 10 per cento entro dieci anni, entro i primi due anni del 3 per cento".

E adesso come vi muoverete? Qual è la prassi?

"Pavoletti prima di tutto è un paziente e sarà lui a decidere cosa fare. Nel 50 per cento dei casi, l'atleta che subisce questo secondo infortunio, non va a farsi operare nello stessa clinica".

Sarà lo stesso tipo di intervento? Quali problemi possono insorgere?

"Sarà uguale, ma con maggiore attenzione al 'prelievo' del tendine da impiantare dove il precedente ha ceduto, perché dalla rotula è stata prelevata già una brattea ossea per la prima operazione, quindi si rischierebbe una frattura della rotula, prelevando il tendine rotuleo. Una delle strade potrebbe essere quella di puntare sul prelievo dei semitendini o prelevare dall'altra articolazione".

Tornare in campo ma soprattutto superare la paura: è questo il problema maggiore nel caso di atleti agonisti?

"Si chiama chinesiofobia, la paura del movimento. Anche se in questo caso, Pavoletti vivrà questi due traumi come un evento unico, perché non era ancora tornato pienamente all'attività agonistica. Dovremo puntare sulla risoluzione della paura del trauma, che permane per diverso tempo. Otto mesi dopo l'infortunio, solo il 17% dei pazienti è in condizioni di rientrare all'attività sportiva in sicurezza. Si effettuano dei test psicofisici in sequenza per valutare quanto sia pronto l'atleta a riaffrontare le partite, la gara, non solo gli allenamenti. Al giocatore faccio il mio in bocca al lupo e di tornare più forte di prima".

Enrico Pilia

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