Un trasferimento dalla Sardegna alla Lombardia, un album pronto per l'uscita a marzo 2020 e poi cestinato quasi in toto causa pandemia, un lockdown in totale solitudine in un appartamento a Milano nel quale l’unica cosa da fare era scrivere altra musica, “per non cadere nel baratro”. Così è nato “Monster cries solo in the heaven”, il disco d’esordio di Malakay, al secolo Andrea Camboni, produttore e rapper nato a Sassari 32 anni fa e da 20 innamorato del genere, nonostante una formazione da violino e pianoforte al conservatorio della sua città. 

O meglio, come racconta a L’Unione Sarda, è stata proprio la sua solida base classica a renderlo diverso dagli altri, a spingerlo a rifiutare i cliché della tradizione rap e della mascolinità tossica con uno stile elegante del tutto personale imbevuto di sonorità elettroniche, hip hop e trap.

Anticipato dall’omonimo singolo e da “Millennium ghetto” e “Higher love”, “Monster cries solo in the heaven” esce oggi per peermusic ITALY: 8 tracce ispirate ai grandi riferimenti dell'hip hop americano dai primissimi anni Duemila a oggi come Kanye West e Timbaland.

Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
Malakay (foto Riccardo Cagnotto)

A Milano Malakay era arrivato nel 2018 per stare al passo, per sposare i ritmi più serrati della città meneghina e lavorare a stretto contatto con le grandi etichette. Ma la sua vita è sempre stata la musica: “Mio padre suona il sax, quindi fin da piccolo ho cominciato a masticare musica. I miei genitori mi hanno iscritto al conservatorio per studiare violino, e come strumento complementare pianoforte”.

Non proprio strumenti da musica rap, cosa è cambiato poi?

“Da ragazzino mi sono innamorato del rap con Fabri Fibra, Marracash, i Club Dogo. Il mio primo singolo l'ho scritto a 15 anni assieme a un amico. Era molto amatoriale, saltavo la scuola a Sassari per andare a casa sua dove aveva allestito un piccolo studio. Poi la cosa è diventata sempre più seria”.

Come?

“Ho iniziato a fare i primi mixtape e i primi freestyle. Ho collaborato per tanti anni con un altro producer sardo, Pherro, che ha lavorato con Marracash, Gué Pequeno, Sfera Ebbasta. Ad inizio 2019 abbiamo rilasciato ‘V Days’, un EP distribuito da Universal. Nel 2020 il disastro”. 

Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
Malakay (foto Riccardo Cagnotto)

Per la pandemia?

"Proprio a marzo 2020 doveva uscire il mio primo album, era tutto pronto. Chiaramente il lockdown ha fatto saltare tutto e abbiamo posticipato l’uscita mese per mese, perché all’inizio sembrava qualcosa di ‘risolvibile’ in poco tempo. E invece, come è noto, non è andata così. Alla fine per me non aveva più senso, ho dovuto cestinare quasi tutto. È iniziato per me un lavoro completamente diverso...” .

Ossia?

“Ho deciso di sfruttare tutto quel tempo libero studiando altri producer che mi piacevano molto, come Kanye West e Pharrell, cercando nuove sonorità. Oggi abbraccio vari sottogeneri, dal classico all’hip-hop, ma nell'album ho inserito anche sintetizzatori, cori, voci distorte e filastrocche trap. Insomma non mi piacciono le classificazioni”.

E dal punto dei vista dei contenuti, cosa voleva raccontare?

"Era un momento molto difficile. Il mio coinquilino era tornato a casa, quindi soffrivo molto la solitudine e la lontananza dalla famiglia. Sono venute fuori fragilità, insicurezze, nostalgia personale e generazionale. Così è nato anche il titolo dell'album: ‘Il mostro piange solo in paradiso’. Paradiso per me è la casa, posto che dovrebbe essere felice, e che invece per me era diventato un luogo malinconico. Alla fine però grazie alla musica c’è la rinascita: per la cover ho scelto un enorme tappeto di fiori, così come nei set che abbiamo allestito a Milano per i videoclip, girati con la regia di Claudio Spanu in sei giorni”.

Nel disco si sentono parlare leader mondiali da Barack Obama a Boris Johnson, come mai?

“Durante la pandemia le figure istituzionali dominavano incessantemente la scena mediatica. Di qui l'idea di inserire altri discorsi famosi come lo speech di Jfk del 1962 per il lancio dell'uomo sulla Luna, quello di Barack Obama che si insedia alla Casa Bianca, Bill Clinton e il terrore del ‘millennium bug’, Richard Nixon con lo scandalo Watergate fino ad arrivare ai più recenti di Boris Johnson e Donald Trump”.

La cover dell'album di Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
La cover dell'album di Malakay (foto Riccardo Cagnotto)
La cover dell'album di Malakay (foto Riccardo Cagnotto)

Come descriverebbe il panorama del genere rap in Italia?

"Penso che finalmente abbia preso piede e abbia un peso specifico nelle industrie musicali. L’altro lato della medaglia è che è super saturo, c’è quasi un sovraffollamento di artisti e di suoni che sono sempre gli stessi. In una sintesi un po’ estrema: tutti fanno musica, tutti fanno musica rap e tutti la fanno allo stesso modo. Ho provato a distinguermi facendo qualcosa non di tendenza”.

Ha mai pensato a X Factor? 

“Mi hanno contattato per i provini ma non credo faccia per me e per il mio percorso. Non che sia un male in assoluto, è una vetrina come un’altra, solo che io mi sentirei fuori luogo a fare cover o qualcosa di diverso dalla mia musica. I talent ti offrono una enorme esposizione istantanea ma la gente ti segue perché sei in tv, non perché sei tu. Il problema è che l’anno successivo ci saranno altri al tuo posto”. 

Che significa Malakay?

"Non ha un significato particolare, è un nomignolo ‘di strada’ che mi hanno dato gli amici a Sassari quando ero piccolo. Ma mi ci sono affezionato”.

© Riproduzione riservata