Il leggendario Zorro, il tenente Dan Taylor di Forrest Gump, Gilderoy Allock di Harry Potter, ma anche Aramis de La Maschera di Ferro. Sono solo alcuni delle decine di personaggi che hanno fatto la storia del cinema interpretati da uno dei doppiatori più importanti d’Italia: Antonio Sanna.

Residente oggi ad Anticoli Corrado, piccolissimo comune nelle campagne romane con una lunga tradizione artistica («Pirandello ha scritto qui ‘I giganti della montagna’», ricorda), è nato settantadue anni fa a Siligo e da quaranta, oltre a fare l’attore teatrale, passa ore e ore chiuso nelle sale di doppiaggio, cuffie sulla testa e microfono, per prestare la voce in film iconici ad attori candidati ai premi Oscar.

Papà maresciallo della Guardia di finanza, tutto è iniziato a Cagliari: vi si è trasferito all’età di dieci anni e lì ha frequentato anche l’università. Facoltà di Medicina.

Perché Medicina?

«L’ho scelta prima di capire che in realtà mi piaceva molto di più fare l’attore. E infatti invece di studiare recitavo al Cit, Centro di iniziativa teatrale, con attori come Mario Faticoni, Tino Petilli, Franco Noè, Cesare Saliu. Nel 1974 abbiamo fondato la cooperativa Teatro di Sardegna. Poi mi sono trasferito a Roma, ho faticato parecchio prima di decollare».

Ossia?

«Ho fatto diversi lavori, tra cui anche l’infermiere in un piccolo centro per gli anziani: i miei studi di medicina mi hanno aiutato a barcamenarmi. Pian piano ho ripreso a fare teatro con varie compagnie, in giro per l'Italia». 

Perché ha iniziato a doppiare?

«Per caso, per tappare “i buchi” del teatro. Per non stare fermo per mesi interi tra una stagione e un’altra, mi sono lanciato con i primi provini».

Il primo ruolo importante?

«Un giovanissimo Hugh Grant in Maurice, film del 1987. Andò bene, piacque molto alla storica direttrice del doppiaggio Fede Arnaud. Eppure non l’ho mai più doppiato, forse con il passare del tempo la mia voce non gli si adattava più».

Come si abbina una voce a un attore?

«Gli elementi che entrano in gioco sono tanti. Il colore della voce ma anche la comunanza ‘psicologica’ nella recitazione, il modo di approcciarla. Non basta l'incollaggio timbrico, bisogna entrare il più possibile nelle parti dell'attore e del lavoro che ha fatto, oltre che del personaggio». 

Ci parli di un provino tipo. 

«Di solito mi viene sottoposta una lunga scena, circa due-tre pagine di copione. Il direttore mi spiega qualcosa del film, dopodiché guardo il personaggio in azione. Provo i tempi, le battute, come vanno sistemate le sillabe per andare insieme a lui per il sync. Fin qui la parte puramente tecnica. Poi c’è la parte recitativa, quella più difficile: in che modo sta usando la voce, che intenzioni sta mettendo, come si muove, se è seduto, se sta in piedi, se sta correndo. Quando mi sento pronto si parte col muto, col coordinamento fondamentale del direttore del doppiaggio che dà direttive dalla cabina di regia».

E il doppiaggio vero e proprio di un film?

«Vent’anni fa, prima di doppiare film per il cinema, soprattutto se molto importanti, lo guardavamo tutto in anteprima».

E adesso?

«Il film in originale non lo possiamo vedere più. La copia che ci mandano per la lavorazione è quasi sempre pessima, grigia, piena di scritte in sovrimpressione. Ci costringono a lavorare in condizioni che ci creano più difficoltà che altro. Molti prodotti americani ci arrivano con degli oblò: non vediamo la scena totale, solo il personaggio fluttuare all’interno di un tondo».

Come mai?

«Per paura che possiamo fare delle copie piratate e diffonderle, ma le assicuro che da una sala di doppiaggio non è mai uscito nulla. La pandemia sotto questo punto di vista ha dato il colpo di grazia». 
Perché?

«Prima la scena noi doppiatori la provavamo insieme e poi ognuno incideva da solo con il “ricordo” del dialogo. Adesso invece no: in sala entriamo uno per volta. Il risultato è che io parlo sempre da solo. Poi i tempi sono strettissimi».

Breve carrellata di attori cui presta la voce: Antonio Banderas.

«Per molto tempo l’ho trovato faticoso: ha una vocalità molto particolare e spesso lo hanno fatto recitare sopra le righe. Ultimamente invece, messi da parte i ruoli più “cialtroni”, mi ci trovo più a mio agio». 

Sir Kenneth Branagh.

«Con lui non ho mai avuto problemi. Abbiamo lo stesso modo di approcciare i personaggi, oltre al timbro di voce. Ho un bellissimo ricordo di Victor Frankenstein in Frankenstein di Mary Shelley fino ai più recenti Comandante Bolton in Dunkirk e Boris Johnson in This England. Una serie Sky sul Covid nel Regno Unito complicatissima, tra il protagonista che ogni tanto tirava fuori citazioni in greco antico e temi politici su cui non potevamo sbagliare. Ma, ribadisco, ormai i tempi sono strettissimi e bisogna fare del proprio meglio». 

Gary Sinise in Forrest Gump.

«Il Tenente Dan è stato un ruolo per me molto fortunato. Prima di me avevano provinato decine di attori ma non riuscivano a trovare la voce giusta. Dopo di lui ho iniziato a doppiare una quantità incredibile di film con tanti ruoli da protagonista. Gary Sinise l’ho anche ridoppiato per una piccola parte, ma molto bella, che ha ne “Il Miglio Verde”».

Forrest Gump è stato candidato all’Oscar per il Miglior film e lo ha anche vinto. 

«Amo il mio lavoro ma mi interessano poco lustrini e passerelle. Non seguo la “fortuna” delle pellicole. A dirla tutta mi rivedo rare volte, soprattutto quando i film finiscono in tv che, per scelta, non guardo».

Rupert Everett ne Il matrimonio del mio migliore amico. 

«Mi sono divertito molto ma non è la mia commedia preferita. Ne ho fatte tante, anche con Kevin Spacey, Hugh Laurie, Stanley Tucci, John Turturro».

Ha doppiato sempre in inglese?

«No anche dallo spagnolo, dal tedesco, dal francese, dal finlandese, dal cinese. E dal giapponese, in Hachiko».

L’hanno mai riconosciuta per la voce?

«Mai e per me è un complimento: ho lavorato anni per avere nella vita di tutti i giorni una voce non caratterizzata, neutra».

Ha avuto difficoltà a smarcarsi dal sardo?

«No, anche se per noi è un’altra lingua. Ho pian piano memorizzato gli accenti, le vocali aperte e chiuse, le doppie. Penso che sia più complicato per un romano, per dire». 

Con il dilagare delle piattaforme di streaming, che futuro ha il doppiaggio in Italia?

«Domanda da un milione di euro. Per ora sembra che la grande scuola di doppiaggio italiana un futuro ce l’abbia, perché si continua a guardare i film doppiati, soprattutto nella tv generalista. Poi se le nuove generazioni imparano sempre meglio l’inglese, chi lo sa…».

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