Dalla Sardegna alla Svizzera, passando per Milano dopo varie tappe negli Usa e nel nord Europa. Il 48enne Andrea Cardia, laurea all’Università di Cagliari, è il nuovo primario di Neurochirurgia dell'Istituto di Neuroscienze Cliniche della Svizzera Italiana, che ha la sua sede principale all’ospedale regionale di Lugano.

Fresco di nomina, arriva dall'IRCCS Humanitas, dove è stato responsabile della Neurochirurgia oncologica e vascolare. Idee chiare fin da bambino, “da quando avevo 5 anni tutti ricordano che volessi fare il medico e dai miei 10 il neurochirurgo in particolare”, spiega a L’Unione Sarda.

Lugano è una sua scelta o è stato scelto? 

“Avevo concorsi ‘aperti’ e ho risposto a un bando relativo a un posto di primario in cui si chiedevano determinate caratteristiche: una skill vascolare oncologica e spinale; è difficile averle entrambe, nel mio caso c’erano”.

Selezione: come avviene?

“Prima su curriculum, da una trentina di candidati si è passati a 10, poi a 5. In seguito due audition con 8 persone tra cui un commissario esterno. Quando ho vinto il concorso è stato solo l’inizio perché da lì cominciano a ‘studiarti’ veramente, ad esempio con quattro ore e mezzo di test psicoattitudinali, anche per far emergere l’eventuale capacità di leadership, indispensabile; una sorta di site visit in Humanitas a Milano per vedermi operare e per parlare col primario, col rettore dell’università, col direttore sanitario e il responsabile della terapia intensiva, insomma con le persone che potevano conoscermi meglio. A distanza è stato infine espresso un giudizio – positivo – e ho accettato l’incarico su un progetto di sviluppo a lungo termine, con un piano triennale e quinquennale”.

Nel suo curriculum ci sono Stoccolma, New York, Helsinki; conosce anche la realtà italiana per aver lavorato a Milano e a Cagliari: che differenze ha trovato tra i sistemi sanitari all’estero e il nostro?

“La prima è in assoluto quella sui medici e sulla strutturazione della loro preparazione, ossia come vengono formati. Ovunque all’estero c’è una formazione di base imposta, meno dipendente dall’individuo e più dalla struttura. In Italia abbiamo tra i migliori medici al mondo ma molto dipende da noi stessi. Voglio dire che escono ottime professionalità, seppur le strutture non prevedano un percorso performante dando una linea di base minore rispetto ad altri Stati”.

Si riferisce agli specialisti?

“Una volta che hai in mano la laurea, e basta studiare per questo, non sei un medico. Le specialità sono scuole in cui, fino a poco tempo fa, dipendeva dalla persona la scelta su cosa volesse fare, non c’è selezione”.

Quindi all’estero esiste la meritocrazia. In Italia perché no?

“Rispetto al passato c’è stato un grande miglioramento, l’errore penso sia quello di non fare assunzioni dirette, non si sceglie la persona ma la si seleziona in base a dei punti che possono invece essere letti in maniera discrezionale. In Svizzera ad esempio la personalità viene fuori”.

La sua professione impone rinunce?

“Rinunce e molti sacrifici, soprattutto per quanto riguarda la distanza dalla famiglia, la mia è rimasta a Milano e io torno il fine settimana. È un lavoro che rappresenta una componente fondamentale della mia persona e devi far bilanciare il tutto altrimenti non raggiungerai mai gli obiettivi che ti sei prefissato”.

In Svizzera esiste il pendolarismo sanitario da altre nazioni come succede in Italia?

“Moltissimo, perché gli specialisti nel mio settore sono pochi e non hanno spesso una formazione neurochirurgica con anche la facilità di comunicazione per via della lingua, e quindi devono ‘pescare’ dall’estero, di solito dalla Svizzera tedesca o francese. Probabilmente sono il primo neurochirurgo italiano, anzi sardo”.

Il sistema sanitario svizzero è solo privato: come – se – si cura un paziente oncologico se ha solo l’assicurazione base?

“L’assicurazione è appunto obbligatoria, chi è nato qui, se è stato assunto o è disoccupato, insomma chiunque ce l’ha. Non è come negli Stati Uniti, tutti hanno accesso alle cure con la loro assicurazione”.

Lei opera o ha un ruolo dirigenziale?

“Opero, certamente. Ora sono appena stato nominato, sto finendo di risolvere le questioni burocratiche, poi comincerò in sala operatoria. Avrò però anche un ruolo di coordinatore che è determinante perché quello di Lugano è l’ente ospedaliero più importante del Cantone”.

Di cosa si occupa soprattutto?

“Interventi vascolari, o anche per tumori, spinali. Non saprei fare una stima, diciamo interventi complessi un centinaio, in totale circa 4mila da primo operatore”.

Quali sono le patologie più diffuse?

“Per quanto riguarda la parte spinale, quella degenerativa che è in crescita per il fenomeno di una popolazione sempre più anziana, stenosi di canale o cervicali. Mentre per la parte cranica quella tumorale benigna o maligna”.

Oggi si parla sempre più di neurochirurgia 2.0, cosa si intende?

“Quella basata su tutte le tecnologie che in questo momento si sviluppano per portare la neurochirurgia a un livello più alto, con sistemi di neuronavigazione ad esempio, o con interventi su un paziente sveglio o ancora con l’utilizzo di robot, che prende piede sempre di più”.

Arriveranno le macchine a sostituire l’uomo?

“Quello credo mai. I robot sono la guida di precisione del chirurgo, che permettono di ridurre al minimo il margine di errore, ma non possono fare ciò che fa la mano umana, anche per questioni di spazio che sovente è ridottissimo durante un intervento cranico”.

Un tema a lei molto caro è quello della formazione dei giovani neurochirurghi. Si dice che tra dieci anni non ci saranno più medici, vale anche per gli specialisti?

“Si registra una riduzione di alcune branche in particolare quelle che comportano rischi molto importanti. C’è da dire che si ricevono denunce magari a fronte di uno stipendio che è paritario per tutte le branche, ma i premi assicurativi non sono tutti uguali, come non lo sono i rischi. Ecco perché molti scelgono di fare meno, e inoltre anche la vocazione è diminuita parecchio. Negli anni gli specialisti si dirigono su lavori sempre più precisi ed entrano quelli che servono, più o meno. Il mio è un campo non enorme, la copertura dei posti c’è sempre stata, e anzi abbiamo potuto scegliere”.

Gli specializzandi vanno sempre più fuori dalla Sardegna, cosa si dovrebbe fare per trattenerli o per farli tornare?

“Convogliare delle risorse finanziarie su uno o due ospedali e basta, per fare un nome avere il Brotzu a un altissimo livello come è stato in tutti i campi e fare investimenti tecnologici per richiamare i cosiddetti ‘cervelli’ dall’estero”.

Un neurochirurgo col suo curriculum sarebbe valorizzato nella nostra Isola? Lei ci tornerebbe?

“Se avessi la possibilità di operare e scegliere il mio gruppo di lavoro, a certe condizioni, valutato il bacino di abitanti, ci penserei”.

Torneremo a un futuro normale con o dopo il Covid?

“Io sono un inguaribile ottimista, rispondo assolutamente sì. Non c’è stato più un lockdown generale, quindi si può parlare di un miglioramento. Servirà ancora qualche anno, poi di Covid sentiremo comunque parlare senza che però impatti così violentemente nella nostra vita”.

La Svizzera ha adottato per l’epidemia meno restrizioni rispetto all’Italia, più attenzione all’economia che alla Sanità: paga questa scelta?

“Sono state realtà assolutamente sovrapponibili, forse la situazione è stata migliore di poco rispetto a quella italiana, in passato invece molto simile, le disposizioni anti-contagio ci sono state, ma il non dichiarare alcuni dati e l’autogestione, chiamiamola così, hanno permesso di arrivare allo stato attuale di relativa tranquillità”.

Cosa vede nel suo futuro?

“Non sono abituato a vedere la vita come una scalata, che quando raggiungi un appiglio cerchi subito il successivo. Ora mi concentro sul progetto che ci siamo riproposti di realizzare, sull’implementazione tecnologica, sulla ricostruzione del team, e sull’incremento dal punto di vista scientifico, anche universitario. Poi si vedrà, magari un’altra destinazione, forse altre proposte, ma in genere cambiare non è cosa a cui io ambisca”.

E la Sardegna ha sempre un posto nella sua mente?

“Sempre, da sempre. I miei genitori sono lì, non è solo il luogo della vacanza estiva, anche nel fine settimana se sono libero torno. Ora meno perché non ho più lo studio a Cagliari, ma il mio essere sardo prescinde da questo. Anche se ho perso un po’ l’accento, quando sono contrariato riemerge tutto”.

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