Stupefacenti, roncolate e un incidente mortale: le cronache recenti del Sud Sardegna hanno riportato sotto gli occhi di tutti una figura che si sarebbe detto appartenere a un passato lontano: il servo pastore.

Servo pastore è il ventiquattrenne di Serdiana, di cui qui non occorre fare il nome, arrestato il 22 maggio scorso dai carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Dolianova con l’accusa di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti: nell’ovile del suo datore di lavoro, un quarantaseienne, il giovane conservava 130 grammi di marijuana e 40 di hascisc. I carabinieri hanno poi perquisito la casa del servo pastore, dove hanno trovato 47 grammi di cocaina e due bilancini elettronici.

È servo pastore anche il sessantunenne ferito a roncolate il 24 maggio da una sua ex amica e vicina di pascolo trentacinquenne nelle campagne di Sanluri: fra i due una lite furibonda, pare per questioni di confini, scoppiata nell’ovile dove lavora lui, finito all’ospedale con ferite al viso, alla testa e al torace.

Un terzo servo pastore, purtroppo, non c’è più: si chiamava Umberto Collu, aveva anche lui 61 anni, era di Guspini anche se viveva da più di vent’anni nelle campagne di Gonnosfanadiga. È morto il 27 maggio precipitando dal tetto di un capannone nell’azienda agricola dove lavorava. C’era salito forse per piccole manutenzioni.

Figura di lavoratore che si credeva consegnata a un passato remoto, arcaico, archiviato, il servo pastore, per secoli, è stato l’entry level dell’allevamento in Sardegna, il passo obbligato per chi voleva fare il pastore ma non aveva un capitale iniziale. Il termine per designarlo era, a seconda delle zone, theraccu o ziraccu. Ceraccu nella Carta de Logu. Il suo lavoro consisteva nell’accudire un gregge per conto di un pastore; in cambio riceveva, a fine stagione, una pecora. Nel giro di qualche anno, se era capace, metteva su un suo gregge e poteva pensare di mettersi in proprio. Un sistema arcaico ma efficiente. Un sistema di cui è fin troppo facile parlare al passato, o relegarlo nel mito o nella poesia.

Servo pastore fu il bambino Gavino Ledda, che ha raccontato la sua vicenda nel suo romanzo “Padre padrone”: un successo e uno scandalo, perché portava alla luce, 45 anni fa, la sopravvivenza nelle nostre campagne di un mondo arcaico, brutale, da cui era difficile fuggire.

Al servo pastore sardo De Andrè dedicò una delle sue canzoni più belle, composta a quattro mani con Massimo Bubola e contenuta nell’album cosiddetto “dell’indiano”, pubblicato quarant’anni fa, dopo il drammatico sequestro di cui il cantautore genovese che volle farsi sardo fu vittima insieme alla sua compagna, Dori Ghezzi. È la canzone che comincia con il verso “Dove fiorisce il rosmarino c'è una fontana scura”, termina con l’invocazione struggente “Notte, notte, notte sola, sola come il mio fuoco / piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco” e racconta di un uomo che non conosce il suo “vero nome” né “l’amore delle case, l’amore bianco vestito”. Vive in campagna, dietro il bestiame, in piena sintonia con le piante (il rosmarino, il cisto, le sughere di cui incide la corteccia con la lama di tutti i suoi coltelli) e gli animali (passeri, cani e falchi) ma irrimediabilmente separato dagli altri esseri umani.

Roba dell’altro mondo, e di un’altra Sardegna, si sarebbe detto. Invece, e ce lo ricordano le notizie di cui abbiamo parlato sopra, i servi pastori continuano a esistere nella Sardegna del nostro tempo, quella che nella narrazione nazionale – soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate – sembra un ininterrotto susseguirsi di spiagge e calette lambite da un mare da sogno, resort, discoteche e ville esclusive. I servi pastori non sono spariti. Vivono ancora negli ovili, si è visto, e negli ovili litigano con i vicini e, sorpresa, a volte con le vicine di pascolo, e contro queste possono addirittura avere la peggio nel confronto fisico. A volte, si è visto, arrotondano la paga trafficando con sostanze illegali. A volte, addirittura, muoiono.

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