“S iamo una generazione triste, piena di foto felici”. La scritta, lasciata su un muro qualunque, è anonima ma sintetizza alla perfezione il disagio scatenato dallo scollamento tra l’enorme complessità della vita e la proiezione di un sé ideale che sui social è facile proporre, offrendo agli altri l’immagine studiata e finta di un copione scritto per sedurre e impressionare. È la perdita dell’io.

È l’annientamento delle personalità. È la rinuncia a essere pienamente se stessi per paura di perdere nel confronto con troppe altre ostentate perfezioni. Questo, naturalmente, è molto più vero per le nuove generazioni (o si dovrebbe dire de-generazioni?) . Oggi, se hai diciott’anni, è bene che tu ti presenti – e possibilmente diventi - come ci si aspetta che tu sia. La tua vita non dovrebbe più essere frutto della spontaneità, ma trasformarsi in una continua recita, in un costante palcoscenico verso il quale si possono rivolgere applausi di gradimento o il silenzio. Il silenzio fa male. Significa che non si è riusciti a suscitare l’interesse degli altri, a racimolare abbastanza “like” o un sufficiente numero di commenti e interazioni.

Meglio bluffare, dunque. Meglio alterare lo stato delle cose, presentando agli altri un’immagine di sé grandiosa, appetibile, ruffiana, serva degli algoritmi che, sui social network, regolano la maggiore (o minore) diffusione di questa o di quella immagine. Ormai lo fanno anche gli adulti. Conosco il commesso di un negozio di elettrodomestici. Questo giovane uomo conduce, in verità, una vita molto semplice e abita in un bilocale assai spartano alla periferia della città. Il mobilio è di recupero, il bagno necessiterebbe di una ristrutturazione. Eppure, sulla sua pagina Instagram, costui sembra una star di Hollywood: un attore, un modello, uno che passa la vita tra Portofino e Monte-Carlo. I suoi post - centellinati con il contagocce, e studiati nei minimi dettagli come le parole dei capi di stato – immortalano i rarissimi momenti perfetti della sua esistenza: scampoli di viaggio pagati a rate in cui lo si vede ai tavoli dello storico Caffè Greco di Roma o a Venezia, in piazza San Marco, mentre gusta una coppa di gelato al Florian. I vestiti sono sempre di buon taglio, la pettinatura perfetta. Ogni immagine è frutto di lunghe pose, di instancabili selezioni. Io, che lo conosco personalmente, quando vedo su Instagram i suoi post, così inclini all’esibizione ambiziosa e ostentata, mi domando sempre: “Ma questo, chi è?”.

Dopo un primo momento di confusione, la mente si libera dal gioco di specchi e trova una risposta. Questo è il commesso di un negozio di elettrodomestici che risparmia tutto l’anno per fare due o tre viaggi in cui finge di essere un miliardario: perché, così, potrà finalmente presentare agli altri un’immagine di sé aderente allo standard imperante sui social. Un’immagine di ricchezza e di successo. Per la verità, queste sue foto un po’ patetiche a me non fanno alcun effetto e, anzi, suscitano un sentimento di pena e di dispiacere per una persona che disperde le proprie risorse mentali ed economiche nel goffo tentativo di risultare più accettabile alla vasta platea di sconosciuti e sconosciute che lo seguono online, senza avere, per lui, alcuna affezione: né alcun interesse al suo benestare o alla sua felicità. Una schiavitù autoinflitta, insomma. Un vassallaggio senza scampo in cui la rinuncia a sé diventa il prezzo da pagare per la droga dell’approvazione e per l’illusione di essere amati.

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