L’ultimo dei realisti
A vvenuta cinque mesi dopo il suo centesimo compleanno, la morte di Henry Kissinger non è stata una sorpresa. Straordinaria invece è stata la sua lucidità intellettuale fino all’ultimo. Il suo libro “Leadership” è dello scorso anno ed è in parte un’autobiografia e in parte un testamento intellettuale. Kissinger ricorda i leader che ha frequentato, da Adenauer alla Thatcher, incluso quel Richard Nixon col quale lavorò gomito a gomito. Modelli diversi di capo politico, ma le cui esperienze formano una sorta di ritratto condiviso, i cui tratti essenziali appaiono pressoché evanescenti nel mondo di oggi.
D ove troviamo, oggi, leader che abbiano una dimensione non esclusivamente mediatica, ma sostanza, cultura e le antenne alzate per interpretare lo spirito dei tempi? Non c’è bisogno di avere propensioni reazionarie per ammettere che quel modello di leadership sembra essere consegnato alla storia, a favore di quelli che potremmo chiamare “grandi follower”: uomini politici attentissimi al sismografo del consenso e totalmente immersi nell’attività di comunicazione. Né ci sono più consiglieri del principe come Kissinger. L’ex segretario di Stato americano è stato una delle figure più rispettate ma anche più odiate della storia politica di quel Paese. I ricordi apparsi a poche ore dalla scomparsa tendono a enfatizzarne la vicenda umana, lo straordinario successo di un ebreo tedesco fuggito dall’Olocausto che arriva a insegnare a Harvard e poi a sussurrare ai Presidenti. Comandare è decidere e in politica internazionale è raro che le decisioni possano essere indolore.
Kissinger è stato l’ultimo esponente di quella scuola che guardava con realismo agli affari internazionali. La sua grande bussola è stata l’equilibrio di potenza. Proprio perché partiva dall’idea di cercare nuovi equilibri, e non dall’ambizione di annichilire il nemico, è stato un grande negoziatore. Nel 1972, riuscì assieme a chiudere la guerra del Vietnam, ad aprire relazioni diplomatiche con la Cina e a sedersi al tavolo con l’Unione Sovietica per firmare il trattato ABM e ridurre la proliferazione delle armi nucleari. Queste tre cose bastano a dire quanto il mondo sia debitore a Henry Kissinger della lunga epoca di pace che ha vissuto. Se non ci fosse stato lo scandalo Watergate, oggi Richard Nixon sarebbe ricordato essenzialmente per quei motivi. Negli anni successivi e fino ai nostri tempi, nel firmamento dei suggeritori dei Presidenti americani, in tema di affari esteri, ha brillato un’altra stella: quella di Zbigniew Brzezinski, un critico della distensione kissingeriana. In parte almeno, i cosiddetti neo-conservatori sono stati suoi allievi e hanno messo al centro della politica estera americana non interesse nazionale ed equilibrio di potenza ma alcuni altisonanti valori, a cominciare dall’esportazione della democrazia. Questi valori sono diventati più importanti del calcolo di costi e benefici e hanno spesso spinto il gigante americano su delle strade senza uscita. Oggi l’apparato diplomatico statunitense e l’amministrazione Biden enfatizzano continuamente la necessità di restringere la globalizzazione ai Paesi amici, più o meno su quella falsariga. Al contrario, si può sostenere che la visita di Nixon in Cina abbia fatto più di qualsiasi altro evento nel secolo scorso per diffondere prosperità economica e diritti individuali nel mondo. L’abbandono di un regime pienamente socialista da parte di quel Paese ha affrancato milioni di persone dalla povertà più abietta. Certo, la Cina non è diventata una democrazia di tipo occidentale. Ma ciò sarebbe avvenuto se fosse stata isolata? Avverrà, se smetteremo di commerciare con essa? La storia non si ripete, e ppure l’esperienza dell’embargo a Cuba qualcosa dovrebbe insegnare. Come tutti i bravi negoziatori Kissinger operava al meglio delle sue possibilità, nelle circostanze date e con risorse scarse. Se il suo realismo muore con lui, per il mondo è una pessima notizia.