D escrivere i propri sentimenti è diventata una perdita di tempo. Ecco perché, da settimane, Gmail - il popolare servizio di posta elettronica di Google - ha cominciato a incoraggiare l’utilizzo delle emoticon per rispondere più rapidamente alle email. Sembra una notizia da poco, invece non lo è: perché, da oggi, un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo cominceranno a rinunciare alle parole, senza rendersi conto che delegare a faccine tristi o sorridenti l’espressione dei propri stati d’animo è una regressione a una fase primitiva della comunicazione.

M a perché sacrifichiamo sempre più spesso le mille sfumature che la scelta ponderata delle parole ci offre per affidarci a una grossolana rappresentazione grafica? Perché siamo disposti a barattare la sofisticata precisione del linguaggio con la stilizzata rappresentazione visiva di uno stato d’animo? Partiamo dalla radice. Dal significato dell’anglicismo “emoticon”, un ibrido nato dalla fusione di due parole che in lingua inglese significano “emozione” e “icona”. Tutti noi conosciamo le emoticon e ce ne serviamo regolarmente nell’ambito giocoso dei social network, negli sms e nei messaggi di WhatsApp. Ora, però, il gigante mondiale della posta elettronica ci sollecita a farlo anche nelle email: e, dunque, nelle comunicazioni più rilevanti e in quelle di lavoro.

Ammettiamolo: l’accesso alle emoticon – che Gmail ha appena spostato in posizione di rilievo per incoraggiarne l’uso – ci tenta: perché ci promette un risparmio di tempo. In prima fila, naturalmente, c’è la faccina sorridente: l’emoticon per antonomasia. La faccina sorridente, nella sua fissa staticità, ha il compito di esprimere, al posto delle parole, un’indefinibile varietà di sfumature: da “è divertente” a “mi fa sorridere”, da “che spasso” a “bella questa!”. Parole che, ormai, useremo sempre meno. Frasi che non occorrerà più scrivere né pensare. Alla faccina sorridente seguono, in prima linea, le mani giunte (a significare “ti sono grato”, “grazie di cuore”, “sei una persona gentile”) e l’immancabile cuore (“ti voglio beve”, “ti amo”, “ti sono molto affezionato”) declinato in varie forme e colori. Naturalmente c’è anche la faccina sorridente con le lacrime (a significare: “è esilarante”, “sto morendo dalle risate”, “questa è davvero forte!”).

Una faccina piange, una versa fiumi di lacrime, un’altra digrigna i denti. Una faccina dorme, una è pensierosa, un’altra ha la bava alla bocca. Ci sono un diavoletto, un clown, un teschio (per esprimere quali parole?). C’è il cuore trafitto da una freccia (di Cupido?) E, poi: un alieno, un florilegio di gatti (anche loro tristi, felici, sorpresi…), tre scimmie, un cervello, labbra, lingue, occhi e mani che applaudono. Un omino che va in bicicletta, uno che è immerso nella vasca da bagno. Tra le emoticon meno istituzionali ci sono anche un leone, un panda e un dinosauro.

Tutto molto divertente, se non fosse che questa grottesca galleria di immagini finirà per logorare la nostra proprietà di linguaggio, indebolendo la capacità di esprimerci e facendoci perdere dimestichezza con il nostro vocabolario. Quante parole non verranno più scritte? Quante volte si rinuncerà a esprime esattamente un determinato stato d’animo? Al posto delle parole, l’iconografia delle emozioni si limiterà a esprimere in maniera più grossolana e limitante i nostri sentimenti: standardizzandoli e semplificandoli. Questa regressione, che è sotto gli occhi di tutti, comporterà molti sacrifici. Perdita di significato, perdita di efficacia e perdita di qualità. Anche nelle email di lavoro, dunque, leggeremo: “Io oggi mi sento così”. E poi, a seguire: un alieno, un teschio e un panda. Le tre faccine sorridenti cui affideremo la nostra muta risposta saranno probabilmente appropriate: ma rappresenteranno anche - e inevitabilmente – l’incipiente analfabetismo delle nostre emozioni.

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