La cultura anti industriale
F are impresa in Italia è sempre più difficile, in alcuni casi impossibile. La cultura anti industriale, unita alla visione punitiva nei confronti di chi massimizza i profitti, sta minando alla radice il tessuto economico di molte aree del Paese, soprattutto delle zone più deboli con scarsa vocazione al rischio. Prima la sinistra, che ha interpretato il proprio ruolo in chiave di contrapposizione al capitalismo, e poi la destra (a destra), che ha sempre diffidato del libero mercato per concentrare tutto nel potere statale centralizzato, hanno dato continuità a una politica suicida.
U na politica a danno soprattutto delle famiglie e dei giovani. Due poli che hanno marginalizzato e, per molti aspetti, mal tollerato lo sviluppo economico, soprattutto del Nord Italia, in quanto fuori dalla loro sfera di controllo e di clientele. I governi Berlusconi avrebbero dovuto aprire una nuova stagione, creare e diffondere una nuova cultura di libero mercato, basata sulla collaborazione e la fiducia tra Stato e imprese: purtroppo ai proclami, anche per resistenze interne degli alleati, non sono seguiti i fatti e la situazione, ancora oggi, si presenta in termini molto critici. I piccoli imprenditori non investono e non fanno crescere le proprie aziende perché si sentono aggrediti dai mille adempimenti burocratici e dai controlli, interni ed esterni. Le medie e grandi aziende resistono perché dispongono di risorse e di struttura tecnica in grado di fare da argine all’intromissione sproporzionata da parte della pubblica amministrazione. Tuttavia, anche queste, appena possono, chiudono e vanno altrove o comunque portano i capitali all’estero.
Le misure agevolative, in materia fiscale o di deflazione degli adempimenti burocratici, spesso vengono usate dai vari governi come una concessione alle imprese e mai inserite in un quadro di riequilibrio tra i protagonisti del sistema. È uno Stato che impone la sua visione senza mai misurarsi con le difficoltà e la “missione” degli imprenditori. A dirigerlo, ancora oggi, c’è una classe politica con una visione ostativa, ad andar bene di malcelata diffidenza che si traduce in controlli sfiancanti e sanzioni, nei confronti degli imprenditori. Sanno che questi sono persone libere, che conquistano il proprio credito sul campo, con azioni quotidiane e con scelte di cui sono chiamati a rispondere in prima persona. In questo quadro, due poteri incrociano il loro agire: quello politico e quello giudiziario.
Merita allora di essere rimesso al centro della riflessione l’articolo 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera”. Lo è veramente? La libertà d’impresa è realmente garantita nel nostro Paese? La grande sfida, ancora una volta, è nelle mani di coloro che antepongono l’interesse collettivo a quello di parte e che declinano il principio di uguaglianza insieme a quello di responsabilità. La classe politica dovrebbe ripensarsi e ripensare il rapporto con quella imprenditoriale in termini di dialogo e collaborazione, uniti dall’obiettivo comune di garantire un futuro di prosperità e di diritti alle nuove generazioni.In questo senso il Parlamento nel mese di maggio scorso ha approvato una legge delega che mira a ridurre i controlli inutili e a valorizzare i comportamenti virtuosi, coinvolgendo le associazioni di categoria e le rappresentanze sindacali. Nel sito del ministero della P.A. si legge: “L’obiettivo è razionalizzare i controlli e individuare gli adempimenti non necessari, superando le sovrapposizioni”. Ancora: “Puntiamo a ridurre gli oneri amministrativi, soprattutto per le piccole imprese, ad accrescere la competitività e lo sviluppo del territorio. Contr olli più razionali significa meno controlli, ma più efficaci”. È un primo passo, speriamo che si apra una nuova stagione, nel solco di quella libertà d’impresa così cara ai padri costituenti che, sulla propria pelle, avevano vissuto la prevaricazione di un regime tiranno.