L a costituzionalizzazione del principio di insularità è una conquista fondamentale per la Sardegna, che colma anche un incomprensibile vuoto dello Statuto sardo. Tuttavia, non si deve essere così ingenui da pensare che sia un interruttore magico che, una volta azionato, risolverà tutti i problemi delle isole. La realtà è molto più complessa, e il principio di insularità deve essere visto come un punto di partenza, non come una soluzione miracolosa. Anche perché è acclarato che la Sardegna e i suoi problemi sono lontani dall’attenzione della politica nazionale.

E ciò nonostante il costo dell’insularità sia un dato impossibile da ignorare: oltre 9 miliardi di euro l’anno, un macigno che equivale a un quarto del PIL e che allontana sempre più la Sardegna dalle regioni più sviluppate. Oggi nella Carta costituzionale c’è scritto che non si può più più accettare passivamente la condanna ad essere perennemente un territorio in ritardo di sviluppo. Però non ci sono passi avanti, ed è il momento di aprire la “fase due”, quella dell’attuazione concreta del principio di insularità. Non possiamo aspettarci che lo facciano gli altri: devono farlo i sardi, con la stessa determinazione e coesione che ha portato a ottenere un risultato che sembrava impossibile.

Lo svantaggio economico e sociale derivante dall’essere l’isola europea più lontana dal continente deve diventare un problema della comunità nazionale. Se è vero che la Sardegna fa parte dell’Italia, l’atteggiamento di indifferenza dello Stato deve finire: questa sfida deve essere il primo impegno dei candidati al governo della Regione. Beninteso, l’insularità non deve diventare un pretesto per una nuova stagione di autocommiserazione e sterile rivendicazionismo, a scapito della credibilità della Sardegna. A parte che la condizione di isola comporta anche enormi vantaggi in termini ambientali e di qualità della vita, il terreno su cui ci dovremo confrontare è quello della concretezza delle nostre proposte e della loro capacità di ridurre il divario del PIL. Una leva importantissima che ci offre il nuovo articolo 119 della Costituzione si fonda sulla sua funzione di legittimazione e base giuridica della politica di coesione, alla quale l’UE destina circa un terzo del proprio quadro finanziario. Alle finalità classiche della politica di coesione oggi l’articolo 119 ne aggiunge un’altra: “promuovere le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità".

La prospettiva è di poter contare su ingenti risorse, che tuttavia sarebbero inutili se non fossero accompagnate da policy oculate e da un’azione sinergica dei tre principali livelli istituzionali, ciascuno dei quali gioca un ruolo chiave: la Regione, lo Stato e l’Unione europea. La Regione deve effettuare un'analisi precisa delle criticità legate all’insularità ed elaborare le conseguenti proposte operative. È chiaro che il problema principale riguarda la continuità territoriale aerea e marittima, presupposto di qualunque politica di sviluppo, atteso che le isole non hanno alternative di trasporto. E non possono passare in secondo piano il drammatico gap infrastrutturale, la salvaguardia dell’ambiente e l’introduzione di forme di fiscalità di sviluppo. Il governo nazionale svolge un ruolo cruciale: esso si interfaccia con l’UE, e ad esso spetta di stanziare risorse significative per le infrastrutture e per garantire la continuità territoriale. È vergognoso che lo Stato italiano lasci questo onere alla Sardegna, con la conseguenza che noi spendiamo appena 25,4 euro all’anno per residente, contro i 180,6 della Spagna per le Baleari e i 248,5 della Francia per la Corsi ca. Dall’Unione europea dobbiamo esigere una revisione “a misura di isola” delle norme in materia di tutela della concorrenza (aiuti di stato), che paradossalmente rappresentano uno dei principali ostacoli alla competitività.

Presidente Commissione speciale

insularità del Consiglio regionale

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