N on abbiamo bisogno di vedere tutti insieme i volti di chi ha ucciso una donna in quanto donna ed è stato condannato. Fa molto più effetto semmai vedere in un solo quadro le facce delle donne uccise, i sorrisi spenti dagli uomini che stavano loro vicino, espressioni comuni di persone come noi o le nostre amiche, sorelle, colleghe, conoscenti che si sono imbattute nel compagno sbagliato.

E quando lo hanno capito era troppo tardi. La mostra allestita - e subito rimossa - nel Tribunale di Livorno è di quelle che accendono gli animi, suscitano indignazione, alimentano polemiche e alla fine ci si perde.

Nelle intenzioni degli organizzatori (la Camera civile e il Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati) esporre le foto degli assassini, l’arma usata, la data e il nome delle vittime serviva a puntare i riflettori sul femminicidio a ridosso del 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne. Invece non sempre quello che fa rumore è utile alla causa. Talvolta, come questa, proprio no. Perché viene facile parlare di gogna a fronte di un sistema sanzionatorio che la Costituzione indirizza verso la rieducazione del condannato. Se poi voleva essere un monito ai possibili futuri killer, sappiamo che non serve neppure la minaccia dell’ergastolo: chi uccide non si ferma solo perché se lo prendono passa il resto dei suoi giorni in cella. Chi ammazza la moglie o la compagna o la ex talvolta si suicida, spesso si costituisce, se lo arrestano difficilmente nega. Insomma, la pena severa non è un deterrente. Figurarsi l’idea di finire in una mostra.

Sul punto - l’esposizione che lede la dignità del colpevole - si potrebbe pure discutere ma sarebbe uno spreco di energie che servono invece per mirare all’obiettivo. Che poi è uno solo, sempre lo stesso: evitare quelle morti assurde che, dicono le statistiche, avvengono tra le mura domestiche spesso dopo settimane, mesi, anni di angherie sopportate in silenzio. Perché ci sono i figli, perché mi ha chiesto scusa, perché forse ora cambia, perché se lo lascio poi come faccio con i soldi che non ho. Perché se lo denuncio poi devo comunque tornare a casa. E c’è ancora lui.

Il tempo passa e il fenomeno non recede, neanche un po’. Coinvolge adulti e giovani, al centro e in periferia, nelle metropoli e nei paesi, in campagna e in città. Tutte le volte restiamo di sasso e tutte le volte pensiamo alle storie che abbiamo sentito, in via diretta o mediata da giornali e tv. Perché il problema è più ampio di quello che appare ed è ancora culturalmente e socialmente difficile prendere un decisione, la decisione, quella che allontana la moglie dal marito, la compagna dal convivente, e i figli in mezzo, al centro di dispute non solo legali. Bisognerebbe fare un sondaggio tra gli avvocati e le avvocate che ogni giorno raccolgono in studio i racconti di uomini e donne. Sì, anche uomini. Le donne sono molte di più, e la loro condizione è quasi sempre la più debole, ma non dobbiamo far finta che non esista un altro versante dello stesso problema. Che forse non sfocia nell’aggressione fisica ma in quella psicologica sì, e può essere devastante.

Le relazioni di coppia sono sempre più sfilacciate, il “per sempre” difficilmente diventa realtà, eppure l’educazione al rispetto dell’altra e dell’altro ancora non c’è. L’amore troppe volte è inteso come possesso, se mi lasci non vale, o me o nessuno. Dovremo sapere che invece la scelta può avere una scadenza, si fa un pezzo di strada in sieme con la consapevolezza che uno dei due a un certo punto potrà sviare. Dovremmo imparare che l’amore è libertà. Uno studio della compianta Nereide Rudas ci dice che il muliericidio, lei lo chiamava così, c’era anche secoli fa, quando però la libertà sessuale non era quella di oggi. Eppure, nella società moderna, succede che ci si leghi fino alla morte. Che non è quella invocata nella formula del matrimonio, ma quella che infligge chi non sa accettare la sconfitta.

Eccolo, il problema: bisogna saper perdere. Bisogna che fin da bambini impariamo a piangere, rimboccarci le maniche e ricominciare. Confidando su noi stessi senza attribuire le colpe a nessuno. La scuola ci prova ma, evidentemente, non basta. Il 25 novembre ci serva allora per cercare la soluzione. Insieme. Nessuno escluso. Il femminicidio è un problema di tutti.

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